Soli nelle mani dei trafficanti: il destino dei bimbi immigrati

I bambini non accompagnati stanno sbarcando a migliaia, dalla Sicilia vengono mandati a Roma o Milano. Alcuni finiscono nei centri gestiti dalle associazioni, molti altri sulla strada

Soli nelle mani dei trafficanti: il destino dei bimbi immigrati

Il più piccolo corre sul monopattino e ogni volta che incrocia lo sguardo saluta: «Ciao!». Ha i capelli a spazzola, i pantaloncini arancioni e un paio di scarpe da ginnastica sproporzionate per la sua altezza. È arrivato giovedì. Dall'Egitto, su un barcone. Ha dichiarato di avere quattordici anni ma potrebbe averne dodici. Sfreccia nei corridoi del centro diurno di Civico Zero di via dei Bruzi, nel quartiere San Lorenzo, accanto a due ragazzi che giocano a biliardino, ad altri tre impegnati al computer. Appese al muro, parabole e lunghe frecce disegnano grandi archi tra l'Asia e l'Europa, le tracce di viaggi infiniti: sette mesi per arrivare in Italia, cinque trascorsi nel deserto. Sui tavoli decine di storie: «Sono andato ad Alessandria per prendere la barca. Sono rimasto chiuso in Alessandria dentro un magazzino...». Questa è la casa a Roma dei bambini venuti dal mare.
Le statistiche li chiamano «minori non accompagnati». E sono sempre di più. Secondo i calcoli di Save the children, dall'inizio dell'anno al 22 giugno sono sbarcati sulle coste italiane oltre 6mila bambini senza genitori. Mille piccoli naufraghi al mese, trenta al giorno. Sono loro adesso le nuove vittime privilegiate dei trafficanti. Dei traghettatori del mare, ma anche dei passeur di terra, che dalla Sicilia smistano i piccoli a Roma, a Milano e nel nord Europa. In assenza di un piano europeo, il governo ha deciso da pochi giorni di stanziare per loro 70 milioni di euro. Ma certo i soldi non bastano, segnalano le associazioni.
C'è una rete di trafficanti che si sta specializzando proprio nella gestione dei clandestini minorenni soli. Li portano a destinazione. O li incanalano in un lavoro nero che spezza la schiena. Li smistano nello spaccio o nella prostituzione.
Al centro dei bambini del mare di San Lorenzo arrivano moltissimi egiziani ed eritrei. Le loro vite sono raccontate con pudore, scritte qualche volta. I primi vengono messi sui barconi dalle famiglie, che hanno bisogno dei soldi dei loro figli a costo di perderli nel Mediterraneo. Il racket dei piccoli schiavi a Roma passa da Mercati Generali. I bambini che il pomeriggio giocano a Civico Zero la sera dormono in comunità per minori, altri da parenti e amici delle famiglie. In comunità, da quando compiono i quattordici anni, non possono essere trattenuti: sono liberi di andare in giro. Di notte alcuni di loro scavalcano i cancelli del grande mercato di Roma e caricano cassette di frutta e verdura che i connazionali rivendono nei piccoli market della Capitale. Un euro l'ora se va bene.
Per molti mesi devono lavorare per ripagare il debito del viaggio, almeno 2mila euro. Poi iniziano a inviare i soldi alle famiglie. Molti non ce la fanno. E allora c'è un posto dove vanno i ragazzini che non sanno come trovare il denaro. La stazione Termini. Questo è il precipizio. «Alcuni decidono di prostituirsi - racconta un'operatrice - Anche molti piccoli afghani, non hanno alternative». C'è un punto, vicino alla stazione, dove i bambini vendono i loro corpi. Sembrano scene da Millionaire, il film di Danny Boyle del 2008 in cui si raccontava l'infanzia di torture di un gruppo di bambini indiani. Eppure è Roma, accanto alle folle che i treni superveloci rigurgitano a piazza della Repubblica.
Proprio a Termini un ragazzo ivoriano, M., diciassette anni, ha trovato invece un nuovo destino in una macchina fotografica. Gliela lasciò sul marciapiede un operatore di Civico Zero. Era una macchina «usa e getta». Il primo scatto fu un sacco dell'immondizia che conteneva i suoi vestiti. Ora M. a ventuno anni lavora al centro di via dei Bruzi e si sta affermando come fotografo. I bambini eritrei scappano dalla dittatura anche da piccolissimi. Già a dieci anni, se vengono bocciati, sono reclutati nel servizio di leva. Allora scelgono la fuga e il mare. Il loro mediatore è A., anche lui arrivato bambino. Aspettò due mesi a Tripoli «chiuso nella casa del trafficante» e poi fu imbarcato: «Su un gommone per Lampedusa».

Voleva andare nel Nord Europa, come tutti gli eritrei, ma a quei tempi impronte digitali in Italia significava obbligo (o fortuna) di rimanere qui. Per lui i programmi non sono stati rispettati, ma: «Basta vivere» sorride. Una piccola frase che sembra la didascalia di una generazione intera di figli del mare.

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