«Per combattere l'Isis l'Italia ha da mettere a disposizione di una coalizione internazionale i suoi gioielli più pregiati, dai droni al sistema satellitare, alle forze speciali, all'Arma dei carabinieri, che gli Usa ci invidiano». Il generale Leonardo Tricarico, excapo di Stato Maggiore dell'Aeronautica, già consigliere militare nei governi D'Alema e Berlusconi, è in pensione e presiede la Fondazione Icsa. Per lui, le operazioni di guerra contro il Califfato, sono «sonnolente e hanno bisogno di un nuovo vigore».
Siamo più vicini ad una partecipazione attiva italiana alla lotta all'Isis?
«In realtà le iniziative diplomatiche, a cominciare da quelle di Hollande, per una chiamata alle armi hanno partorito un topolino, operazioni militari di facciata. Se non fosse per Putin il Califfato continuerebbe ad avanzare indisturbato. Credo che il presidente francese, visti i risultati modesti della mobilitazione europea, dovrebbe chiedere la solidarietà atlantica, convocando il tavolo Nato-Russia, istituito nel 2002 da Berlusconi a Pratica di Mare. Dopo le Torri Gemelle l'alleanza rispose coesa all'appello di Bush, ora Hollande dovrebbe chiedere di ricambiare quella generosità».
Berlusconi ha detto chiaramente che l'Italia dovrebbe fare la sua parte in una coalizione sotto l'egida dell'Onu.
«È la prima cosa sensata che sento. Renzi ha fatto bene finora ad essere prudente, ma a questo punto serve una svolta, con la legittimazione dell'Onu, che altrimenti rischia di scomparire».
L'Italia è pronta alla guerra?
«Assolutamente sì. Ha da offrire le capacità più pregiate nell'inventario militare. Abbiamo poco, ma è quello che serve: parlo del sistema di ricognizione satellitare sviluppato da Finmeccanica; dei droni, Predator e Reaper, per i quali abbiamomaggiori professionalità degli Usa; delle cisterne volanti, che non ha nessuno; delle forze Sead, per la soppressione delle difese antiaeree nemiche; dei velivoli di trasporto aereo, che solo la Gran Bretagna può vantare. Se avessimo anche gli F35 di quinta generazione, invece dei nostri cacciabombardieri, il salto qualitativo del conflitto sarebbe enorme».
Che tipo di intervento ipotizza?
«Bisogna partire da una diagnosi e una strategia precisa, per evitare errori come quelli fatti in Libia. Inizierei con un ammorbidimento con Air Power, imponendo una no fly zone, per un'opera di pulizia e di controllo delle operazioni a terra dell'Isis anche attraverso il radar volante Nato, oltre che per impedire che qualche caccia turco abbatta velivoli alleati, com'è successo per quello russo. Naturalmente, il governo dovrebbe autorizzare i nostri aerei ad essere armati, eventualmente per bombardare. I criteri di impiego devono essere ridisegnati».
Nel '99 lei guidò la campagna aerea Nato nel Kosovo, vinta senza perdite alleate solo con i raid dal cielo, ma contro il Califfato sembra non basti. Bisogna mettersi gli scarponi ed intervenire via terra?
«Sì, in una seconda fase. E bisognerà vedere chi saranno i nostri compagni di ventura. Già da un anno gli italiani addestrano i peshmerga turchi e irakeni, poi serviranno le nostre forze speciali. La medaglia più pregiata sono i carabinieri, tanto che gli Usa ci hanno chiesto di formare lì una professionalità simile. Dovrebbero occuparsi anche della stabilizzazione postconflitto, perché il percorso va pensato dall'inizio alla fine».
Costi umani ed economici?
«Dipenderà dal grado d'impegno dell'Italia.Non sarà a costi bassi, ma soldi ben spesi».
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