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Sparò per vendicare la moglie, condannato a 30 anni di cella

Il paradosso di Di Lello: il pirata della strada era libero per colpa dei giudici, con lui ci hanno messo un mese

Sparò per vendicare la moglie, condannato a 30 anni di cella

Singolare paradosso: basta un mese per condannare l'uomo che ha ucciso per la lentezza della giustizia. Il protagonista è Fabio di Lello, l'ex calciatore di Vasto che a febbraio attende fuori dal bar il responsabile della morte della moglie in un incidente stradale, gli rivolge qualche parola, poi estrae la pistola e con tre colpi all'addome lo uccide. Giustizia è fatta, come in Un borghese piccolo piccolo di Monicelli dove un padre vendica la morte del figlio seviziando l'assassino in un capannone. Ieri la Corte d'assise di Lanciano ha condannato Di Lello a 30 anni per omicidio volontario premeditato. I suoi legali che hanno ottenuto l'abbreviato, nella speranza di evitargli l'ergastolo, così è stato, adesso ricorreranno in appello. La Corte ha stabilito anche una provvisionale di 40mila euro che il vendicatore per amore dovrà versare a genitori e fratello della vittima.

Di Lello non aveva elaborato la scomparsa di Roberta, e chissà se l'ha superata dietro le sbarre, andava a trovarla ogni giorno al cimitero, a volte si fermava a mangiare lì fissando la tomba della giovane donna che doveva diventare la madre dei suoi figli. «Mamma, sto arrivando», è stata l'ultima telefonata di Roberta che in scooter si recava dai genitori, era vicina alla meta quando è avvenuto lo scontro letale con una Punto che non si è fermata al rosso. Pochi minuti dopo il ricovero Roberta si è spenta nello strazio dei suoi familiari. L'incidente accade agli inizi di luglio 2016, da allora ha inizio l'odissea giudiziaria che acuisce il dolore e inasprisce l'animo, la procura di Vasto apre un fascicolo per omicidio stradale, le indagini si chiudono cinque mesi dopo, a fine novembre, la prima udienza davanti al gup viene fissata per la metà di febbraio quando è ormai troppo tardi.

Di Lello ha annientato il presunto colpevole, Italo D'Elisa, il 20enne a bordo della Fiat che alle analisi risulta perfettamente sobrio, nessuna traccia di alcol o droga. Dall'incidente all'udienza preliminare trascorrono 8 mesi, un lasso di tempo insopportabilmente lungo per il marito rimasto vedovo che su Facebook mostra le foto della coniuge, quelle di una coppia felice che sogna il futuro, le mani intrecciate, le fedi nuove, l'abito bianco, il progetto di una vita andato in fumo. Di Lello non resiste, si lamenta delle lungaggini giudiziarie, insieme ai suoceri alimenta un movimento d'opinione in paese e su internet, i muri sono tappezzati di manifesti con la scritta «Giustizia per Roberta», la presenza di quel D'Elisa a piede libero è uno schiaffo in faccia, un pugno nello stomaco. Al punto che un bel giorno si consuma la vendetta e su Facebook Di Lello sfoggia l'immagine del Gladiatore, si cala nei panni di quel Massimo Decimo Meridio che, tornato dalla guerra, scopre la propria famiglia massacrata per vendetta.

Di Lello uccide a causa di una giustizia troppo lenta che non dà risposte ma che nel suo caso, per paradosso, agisce con una rapidità sorprendente. La condanna in primo grado a 30 anni viene emessa all'esito di un processo con rito abbreviato durato un mese, solo 52 giorni dopo l'omicidio di D'Elisa. Forse se il sistema avesse funzionato con una celerità paragonabile anche per Roberta, il marito non avrebbe covato un odio tale da concepire il diabolico piano. Nei tre spari fuori dal bar c'è l'atto estremo di un uomo rassegnato e impotente che decide di fare da sé, un fatto che non si può condividere perché la violenza non va mai elevata alla dignità della giustizia. Tuttavia, se la giustizia non c'è perché nella legge, e in chi la amministra, si è persa ogni fiducia, non c'è motivo di stupirsi.

Resta solo il dolore per una doppia tragedia.

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