Spie per zittire le vittime: il metodo Weinstein

Il produttore pagava ex agenti del Mossad per raccogliere informazioni e insabbiare gli scoop

Spie per zittire le vittime: il metodo Weinstein

Il suo nome in codice era «il cliente finale» oppure «Mister X». Così pretendeva lui stesso, Harvey Weinstein. E non è difficile capire perché. Il produttore statunitense aveva messo in piedi un sistema diabolico, degno delle più sofisticate storie di spionaggio hollywoodiane, per scoprire quali delle sue prede-vittime avrebbero potuto parlare, nel tentativo di silenziarle e di fermare il lavoro dei giornalisti che provavano a mettere le mani sul caso. Ex agenti del Mossad (il servizio segreto israeliano), due delle più grosse agenzie investigative del mondo (la Kroll e la Black Cube, quest'ultima composta da molti ex agenti dell'intelligence israeliana), avvocati complici che giocavano su due tavoli (come il legale del New York Times finito ora nella bufera). Di tutte queste professionalità e complicità - che ricopriva d'oro, cioè di migliaia di dollari - il produttore si è servito per continuare ad agire indisturbato nel ruolo di predatore sessuale, mentre oggi è a quota 93 il conteggio delle donne che lo accusano di aggressione sessuale, 14 delle quali denunciano di essere state stuprate.

Gli investigatori si fingevano giornalisti oppure attivisti per i diritti delle donne pur di estorcere informazioni e girarle a «Mister X», che seguiva personalmente l'evoluzione del lavoro. L'attrice Rose McGowan, che del sistema Weinstein è stata una delle principali vittime insieme con l'italiana Asia Argento, racconta che a un certo punto sembrava di vivere in Gaslight (Angoscia), il film tratto da un'opera teatrale in cui il marito cerca di portare la moglie alla pazzia, facendola dubitare della sua memoria e delle sue percezioni, per poterla fare internare. Una finta attivista contro le discriminazioni si presentò diverse volte davanti all'attrice, offrendole addirittura 60mila dollari per parlare a un gala per i diritti delle donne, mentre contemporaneamente fingeva di essere un'accusatrice di Weinstein e si presentava davanti al giornalista Ben Wallace che stava lavorando su una storia sul produttore.

Quel che emerge dalla seconda puntata dell'inchiesta di Ronan Farrow sul New Yorker è un sistema sofisticatissimo di indagine, controllo e intimidazione, che proverebbe una volta per tutte anche la ragione per cui molte delle donne coinvolte nello scandalo Weinstein hanno atteso così tanto prima di parlare, vittime non solo della violenza fisica del produttore ma anche di una forma di controllo che ne consentiva il condizionamento psicologico. A Weinstein venivano fornite le registrazioni di centinaia di ore di conversazione, raccolte a insaputa delle vittime. E poi anche dettagli scabrosi della loro vita privata, una sorta di dossier con elementi buoni a rovinarne la reputazione. I particolari erano raccolti sotto le voci «Bugie/Esagerazioni/Contraddizioni» oppure «Ex amanti». Tutto aveva un prezzo, ovviamente. Che lievitava con qualche extra ogni volta che si raggiungevano nuovi obiettivi. Trecentomila dollari «per le informazioni che contribuiranno a fermare la pubblicazione dell'articolo in ogni sua forma». Cinquantamila dollari per ottenere la seconda metà delle memorie che Gowlan avrebbe dovuto pubblicare con particolari su Weinstein. Uno dei contratti siglati fa capo allo studio legale dell'avvocato del New York Times David Boies.

Mentre rappresentava il quotidiano che ha poi tirato fuori la storia delle molestie, il legale (che rappresentò Al Gore nella disputa sulle presidenziali del 2000) si impegnava con la società di investigazioni Black Cube «a fermare la pubblicazione di un articolo negativo in un giornale di punta di New York». Indovinate quale?

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