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Con lo stop agli investimenti l'Italia ora rischia 27 miliardi

Dalle infrastrutture alle ferrovie, dal petrolchimico all'energia, il nostro Paese si è impegnato con l'Iran

Con lo stop agli investimenti l'Italia ora rischia 27 miliardi

U na sberla da 27 miliardi. È questo il contraccolpo che l'Italia e le sue imprese rischiano di subire in seguito alla decisione di Donald Trump di non ratificare l'accordo sul nucleare con l'Iran. La grande illusione delle aziende italiane, convinte di potere tornare a chiudere brillanti affari nella Repubblica Islamica, è stata nutrita e foraggiata da un governo Gentiloni che ha preferito ignorare e sottovalutare i segnali provenienti da Washington pur di alimentare il sogno di un nuovo Eldorado iraniano.

Per capirlo basta andare allo scorso 11 gennaio quando il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan riceve a Roma il ministro delle Finanze iraniano Mohammed Khazaei. Al centro dell'incontro c'è la firma dell'intesa con cui Invitalia, un carrozzone di stato controllato al 100 per cento dal ministero dell'Economia, mette a disposizione di due banche iraniane (Bank of Industry e Middle East Bank) una linea di credito da cinque miliardi per garantire gli investimenti delle aziende italiane. In pratica se la controparte iraniana non pagherà i contratti stipulati attraverso le due banche di Teheran le aziende italiane verranno risarcite con i soldi di Invitalia. Il meccanismo già così è alquanto perverso. Anche perché il ruolo di agenzia di credito all'esportazione spetta normalmente a Sace, l'agenzia di «Cassa Depositi e Prestiti». In questo caso però «Cassa Depositi e Prestiti» sceglie di restare in disparte proprio per il timore di subire le sanzioni riservate dagli Stati Uniti a chi intrattiene relazioni finanziarie con l'Iran.

La decisione di usare Invitalia è dunque la conseguenza della riluttanza di una «Cassa e Depositi e Prestiti» ben consapevole del rischio derivante da possibili accordi con l'Iran. Ma l'anomalia è ancor più evidente se si considera che l'intesa tra Padoan e Khazaei viene firmata soltanto 24 ore prima di quel 12 gennaio in cui Trump anticipa ufficialmente l'intenzione di non ratificare l'accordo sul nucleare. Ventiquattro ore prima e non ventiquattro ore dopo potrebbe obbiettare qualcuno. Peccato che i primi segnali dell'assoluta indisponibilità di Trump a ratificare le intese con l'Iran risalgano al 13 ottobre. Già allora il presidente statunitense chiarisce di non aver alcuna voglia di confermare un accordo definito - durante un discorso alla Casa Bianca - «una delle peggiori e unilaterali transazioni in cui siano mai stati coinvolti gli Stati Uniti». Eppure dal 13 ottobre fino a quell'11 gennaio il governo italiano preferisce ignorare i segnali provenienti dalla Casa Bianca e incoraggiare invece le aziende italiane a coltivare i rapporti con la Repubblica Islamica. Un atteggiamento ancor più imprudente se si considera che Federica Mogherini in qualità di Alto Commissario per la Politica Estera dell'Unione non può non aver segnalato ai vertici italiani l'alta probabilità di una rottura. Ma evidentemente neppure la presenza della Mogherini a Bruxelles basta a indurre alla prudenza.

E così sull'onda dell'entusiasmo profuso da Padoan e dal resto del governo le grandi aziende italiane s'impegnano in protocolli di intesa per un valore complessivo di circa 27 miliardi di euro che spaziano dalle infrastrutture alle ferrovie, dall'energia al petrolchimico. Saipem, ad esempio, firma accordi di cooperazione per la progettazione di oleodotti, il potenziamento di raffinerie e lo sviluppo del giacimento di gas di Tous. Ferrovie dello Stato sigla invece un accordo da 1,2 miliardi per la costruzione della linea alta velocità tra Qom e Arak.

Contratti e soldi che con tutta probabilità l'Italia non vedrà mai.

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