Premessa necessaria affinché il lettore si regoli: Francesco Storace, vecchio fascistone, ex portavoce di Gianfranco Fini ai tempi in cui anche questi era un fascistone, è un amico caro. Quindi l'articolo che mi accingo a scrivere è viziato dalla simpatia che nutro per lui. Aggiungo tuttavia che lo vergherei anche qualora egli mi stesse sulle scatole, dato che è vittima di una clamorosa e insopportabile ingiustizia. Basti pensare che rischia di finire in galera per una bischerata ovvero un reato che tale non è, se valutato secondo logica e alla luce degli attuali orientamenti del diritto.
La vicenda è la seguente. Storace nel 2007 è protagonista di una polemica politica. Ce l'ha con i senatori a vita che ogni due per tre vanno in soccorso di Romano Prodi, allora premier traballante a causa di una maggioranza esigua a suo sostegno. Tra le più assidue stampelle del presidente del Consiglio dell'epoca, c'era il premio Nobel Rita Levi Montalcini (quasi centenaria ma allora viva e vispa), la quale, in caso di necessità, si precipitava a Palazzo Madama allo scopo di appoggiare il governo in difficoltà numerica.
Niente di eccezionale. Sennonché Storace, di fronte allo spettacolo dei Matusalemme sempre pronti a dire signorsì al Professore, ebbe l'ardire di sfotterli un po', in forma bonaria. In particolare prese di mira - ma senza esagerare nei toni - la signora Montalcini, definita appunto «stampella». E fin qui nulla di strano. Infatti il sostantivo stampella non sarà elegantissimo se rivolto a una donna illustre, ma nemmeno va considerata un'insolenza. Il presidente Giorgio Napolitano però si irritò e dichiarò che era ora di smetterla di attaccare la scienziata, e i colleghi che le andavano appresso nel tenere in piedi Prodi, e aggiunse che era indegno prendere in giro lei e gli altri. Al che il sanguigno Storace rispose: «Indegno semmai sarà il capo dello Stato». Secondo il dizionario Zingarelli (e altri dizionari), «indegno» significa non meritevole di qualcosa. Pertanto non è un insulto o un'offesa.
Nonostante ciò il povero Storace, benché parlamentare, fu denunciato per vilipendio al presidente della Repubblica su iniziativa di non ricordo chi, forse un procuratore o sostituto procuratore. Sembrava una sciocchezza destinata a esaurirsi in una risata. Manco per niente. Si dà il caso che i procedimenti giudiziari per vilipendio a sua maestà residente al Quirinale debbano essere - per non arenarsi - autorizzati dal ministro della Giustizia che, in quel periodo, era Clemente Mastella, un garantista a intermittenza, tanto è vero che egli, anziché gettare la pratica nel cestino della carta straccia, la inoltrò come legittima.
Dai fatti sono trascorsi ben sette anni. Tutti ce ne eravamo dimenticati, convinti che una cretinata simile non potesse che essere stata archiviata. Invece no. Se le bugie hanno le gambe corte, ahimè le schifezze le hanno lunghe e tra un mese il camerata Storace sarà processato con l'imputazione sopra citata: vilipendio, reato punibile con una pena da 1 a 5 anni di carcere. Solo un Paese ubriaco o comunque rimbambito mantiene in vita una norma del genere, e in effetti stiamo parlando dell'Italia dove i ladri più famosi e gli assassini più feroci la fanno franca, ma se uno dice che il presidente è indegno viene trascinato nelle patrie galere.
Si rende conto il lettore dell'assurdità di questa storia? Da notare che Storace, dopo l'incidente, incontrò Napolitano con il quale si rappacificò. Una stretta di mano e amen. Non è stato sufficiente. La memoria d'elefante della legge prevale sul buon senso e il processo, tardivo ma puntuale come il destino, è alle porte. Va sottolineato che Storace, indignato quanto basta, è deciso, se sarà condannato, a non ricorrere in appello e a farsi ingabbiare. Se la pena sarà superiore ai 2 anni, scatterà la legge Severino in base alla quale il condannato sarà estromesso dai pubblici uffici, non più candidabile, esattamente come Silvio Berlusconi. Sarebbe uno scandalo senza precedenti.
In attesa del verdetto, non resta che scagliarsi contro il potere legislativo il quale non ha mai abrogato i reati di opinione ossia quelli che non esistono in nessun Paese democratico tranne il nostro che, difatti, democratico non è, visto che potenzialmente manda in carcere anche i giornalisti colpevoli di diffamazione a mezzo stampa, infischiandosene di una circostanza significativa: nel mondo occidentale chi diffama paga in soldoni e non con la carcerazione. La libertà di pensiero non si concilia con la prigione, ma solo con la ragione.
Lo stesso discorso vale per il vilipendio, eredità medievale. Tutti i cittadini, dal capo dello Stato all'ultimo pirla, se vengono offesi nella loro reputazione, querelano e il tribunale decide chi ha torto e chi ha ragione. In Italia, no.
Noi comuni mortali siamo sudditi e se diciamo che il re è nudo o vestito male, guai: in cella. E quei fannulloni dei parlamentari che potrebbero cambiare i codici senza spendere un euro, invece di lavorare, si girano i pollici. Brutti, sporchi, corrotti e lazzaroni. Ci fosse uno che li rottama sul serio.
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