Coronavirus

Strappare le vite alla morte nella rianimazione di Bergamo

Un giorno coi medici dal pronto soccorso alla terapia intensiva. Scene mai viste nemmeno a Mosul o a Grozny

Strappare le vite alla morte nella rianimazione di Bergamo

«Scene così non le ho mai viste e mai mi sarei immaginata di vederla. Sembrano quelle del cinema, ma poi alzi gli occhi e capisci... il film è tutt'attorno a te». Mentre Sabrina parla alzo gli occhi dal taccuino. In un attimo capisco. Ha tremendamente ragione. Quella tutt'attorno non è la realtà. Non può essere la realtà del pronto soccorso di Bergamo. Dove posso aver visto immagini del genere? Forse all'ospedale di Soweto durante quel reportage sui feriti e sulle vittime degli scontri del sabato sera? Forse a Mosul durante l'assedio? Forse nelle corsie insanguinate di Grozny o di Sarajevo? Mi guardo attorno. Realizzo. No non è così. Né a Soweto né a Mosul, ma neppure a Sarajevo, o a Grozny ho incontrato tanta sofferenza in un posto solo.

Qui lettighe dei malati di Covid sono ovunque. Accostate ai muri, parcheggiate fuori dagli stanzini. Sospinte avanti e indietro da stuoli di indaffarati e alacri marziani verdi nascosti, come Sabrina, sotto camici e maschere protettive. Il soffio dell'ossigeno è ovunque. Un rumore di fondo angosciante e continuo. L'ansimare di un'interminabile agonia su cui s'intrecciano il pulsare delle macchine, il parlottio discreto dei medici, il gemito affannato dei ricoverati, lo scalpiccio degli infermieri, lo squillare lancinante degli allarmi per il decrescere dei dati vitali. Dove c'è ancora spazio, dove non c'è un medico chinato a visitare o a telefonare hanno ammassato bombole d'ossigeno, schermi di computer, provette e tamponi, scatoloni aperti di medicinali e flebo.

«Benvenuto in trincea!», il saluto del dottor Roberto Cosentini, direttore della Medicina d'urgenza mi risveglia da quell'osservazione strabiliata e sbigottita. Cosentini mi porta verso il fondo della corsia. Lì un cartellone giallo con la scritta Pemaf sovrasta un enorme stanzone di trenta metri per dieci. «Pemaf sta per Piano di Emergenza per il Massiccio Afflusso di Feriti, l'avevamo organizzato per terremoti, disastri ferroviari e attacchi terroristici invece è diventato il nostro luogo di lavoro quotidiano. Qui - spiega Cosentini - si lotta ogni giorno tra la vita e la morte». M'affaccio alla soglia. Appena oltre un altro salto tra orrore e fantascienza, tra realtà e fantasia. Allineate davanti a me due lunghe file di letti. Su ognuno un paziente con uno scafandro trasparente in cui un tubo di plastica trasfonde folate di vitale ossigeno. Hanno volti sopiti e occhi socchiusi. Quando li aprono intravvedi sguardi sperduti, confusi, angosciati. Sembrano l'equipaggio ibernato di un'astronave lanciata verso spazi siderali. In verità lottano disperatamente per restare ancorati su questa terra. «Tutti questi pazienti soffrono di polmoniti gravi dagli effetti devastanti spiega Cosentini -. Ne riceviamo sessanta, settanta al giorno. Almeno un terzo non sopravvivrebbe senza quantità elevate di ossigeno e di assistenza ventilatoria». Ma a rendere più angosciante la sofferenza c'è la solitudine. «La loro condizione è disumana spiega Sabrina - perché oltre a esser confusi e terrorizzati sono anche disperatamente soli. La contagiosità del virus preclude qualsiasi possibilità di visite o d'incontri con i parenti».

«Noi infermieri - racconta Giorgio, un altro infermiere - siamo l'unico e ultimo tramite con le loro famiglie». «Ma il peggio è che molti hanno già avuto un lutto in casa e così oltre a consolarli e confortarli - aggiunge Sabrina - dobbiamo anche aiutarli a sopravvivere distraendoli e convincendoli a concentrarsi sulla respirazione». «Per noi non sono più soltanto pazienti, ma una specie di parenti oltre a curarli - spiega la dottoressa Federica Danini - cerchiamo anche di consolarli». Di tutti i disgraziati curati e confortati Giorgio non dimentica un'anziana signora: «La dovevo intubare, ma lei piangeva, tossiva e singhiozzava dentro il casco Non vedo più i parenti - diceva -non so più cosa ne sia dei miei figli. Allora le ho preso la mano: Tranquilla - le ho detto - tranquilla te li chiamiamo noi. Adesso ti addormentiamo e quando ti risveglierai respirerai meglio. È passata una settimana, ma da allora non è ancora scesa dalla terapia intensiva».

Ci saliamo noi. Qui la frenesia del pronto soccorso lascia spazio al silenzio innaturale dei pazienti sopiti, al pulsare ritmico dei macchinari, alla voce sommessa e un po' sconfortata del dottor Fabrizio Fabretti, direttore della rianimazione. «Ormai abbiamo più di ottanta posti letto occupati da pazienti molto gravi che in molti casi unendo trattamenti di ventilazione e terapie farmacologiche riusciamo a salvare. Ciononostante lo confesso sono un po' depresso e un po' frustrato.

Anche perché in quasi un mese di esperienze non ho ancora capito quale medicine o quali trattamenti siano veramente determinanti per la loro guarigione».

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