V erso la metà degli anni Sessanta cominciarono ad apparire i primi risultati della ricerca di Renzo De Felice sul fascismo e sulla biografia di Mussolini. La storiografia imboccò la strada di una analisi realmente storica e fondata sulla ricostruzione di quella stagione politica al di là delle deformazioni della politica e dell’ideologia. Molti risultati degli studi di De Felice – all’inizio guardati con scetticismo o sufficienza – divennero patrimonio della letteratura storiografica più avvertita: la differenza per esempio tra «movimento» e «regime», il riconoscimento dell’esistenza di un diffuso «consenso» al fascismo e via dicendo. Ed entrarono a far parte del comune sentire. Negli ultimi tempi, però, quali che ne siano le motivazioni, la polemica politica, attraverso la riscoperta di un risibile pericolo neo-fascista, ha riportato indietro di interi decenni i discorsi sul fascismo, addirittura all’epoca precedente gli studi defeliciani. Si è tornati, per motivi puramente politici e propagandistici, a una utilizzazione estensiva e demonologica del termine «fascismo» che non ha più nessun riferimento concreto e reale con il fenomeno storico che esso dovrebbe evocare. In una situazione del genere è da salutare con grandissimo apprezzamento l’uscita in libreria di un importante e denso saggio di Guido Melis dal titolo La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista (Il Mulino, pagg. 624, euro 38), che si propone di studiare, con equilibrio e grande finezza, i meccanismi essenziali del regime. Si tratta di un lavoro, opera di uno studioso della storia delle istituzioni e dell’amministrazione pubblica, che, sia pure da una prospettiva diversa, riprende e prosegue il cammino storiografico iniziato da Renzo De Felice. Il problema centrale dello studio di Melis è quello del rapporto tra lo Stato fascista e lo Stato liberale. In altre parole, è quello di cercare di capire come, e fino a che punto, la «macchina» del fascismo sia riuscita a incidere sulla continuità amministrativa e burocratica dello Stato preesistente per portare avanti la sua opera di rottura o, se si preferisce, la sua rivoluzione.
Melis fa notare come, fra le carte della Presidenza del Consiglio sia conservata una busta intestata «Consiglio dei ministri» recante la data 31 luglio 1943-XXI con questa frettolosa annotazione sul frontespizio del fascicolo interno: «Non ha avuto luogo per mutamento del Ministero». È significativo, più che curioso, il fatto che la fine del regime, all’indomani del 25 luglio 1943, sia stata, da un qualche burocrate, declassata al livello di un puro e semplice cambiamento di governo. La verità è che le istituzioni del fascismo, a cominciare proprio dalla struttura burocratica, si sono trovate a convivere con le vecchie istituzioni dello Stato liberale. Il fascismo giunse al potere all’indomani della conclusione della Grande Guerra in una situazione di crisi generale, politica, economica e sociale determinata dalle immani trasformazioni anche psicologiche indotte dal conflitto. La classe dirigente venuta fuori dal conflitto era, come ben sottolinea Melis, «non priva di forti individualità», ma «dominata ossessivamente dal culto del capo e da un impulso primordiale all’obbedienza gerarchica, insieme frutto della pedagogia della trincea e portato storico dei grandi fenomeni di irreggimentazione sociale imposti dall’industrializzazione». Questa classe politica fece il suo ingresso nei gangli di una struttura statuale che, dal punto di vista delle istituzioni, si ricollegava direttamente allo Stato liberale dell’anteguerra con la sua architettura burocratico-amministrativa e con la sua legislazione fortemente radicata in un impianto normativo ancora ottocentesco. Il fascismo, giunto dunque al governo, si trovò, così, ad operare in un contesto istituzionale, burocratico, amministrativo e legislativo consolidato anche se, per comune ammissione, bisognoso di ritocchi o ammodernamenti dovuti alle nuove sfide, diretta conseguenza del conflitto mondiale, di una società che stava diventando di massa e stava imboccando la strada dell’industrializzazione. Esso fece ricorso al personale, peraltro di elevato livello e di grande competenza, che aveva consentito il funzionamento della macchina burocratico-amministrativa della tarda età giolittiana. Gli uomini di Mussolini, una volta insediati nei posti di comando, si appoggiarono al personale in ruolo nella amministrazione pubblica o a tecnici di settore e grande importanza ebbe la figura del capo di gabinetto. In alcune amministrazioni – si pensi, per esempio, al Ministero degli Esteri, dove per diversi anni la carica di Segretario Generale venne ricoperta da Salvatore Contarini, uomo della destra conservatrice di tradizione liberale – tutte queste personalità operarono, più che come cerniera, come fattori di collegamento con l’Italia liberale.
L’analisi proposta da Guido Melis col supporto di un ampio e preciso apparato statistico pone implicitamente, quanto meno a livello di personale burocratico-amministrativo, il problema della continuità-rottura fra lo Stato liberale e lo Stato fascista. Si tratta di una questione rilevante dal punto di vista storiografico perché, al di là delle biografie intellettuali del personale burocratico-amministrativo, pone il problema della natura stessa del regime e della sua effettiva capacità di essere o trasformarsi in un regime compiutamente totalitario. In effetti, a ben vedere, il traguardo della realizzazione di uno Stato totalitario non venne raggiunto. La struttura della stessa «diarchia», cioè a dire la convivenza tra fascismo e monarchia, lo rendeva di fatto impossibile. E del resto lo Stato fascista non ebbe carattere monolitico: nelle sue strutture si trovarono a convivere fascisti in senso proprio, ma anche esponenti dell’Italia liberale, uomini che rappresentavano interessi economici, ovvero oligarchie o potentati. Un grande mix, insomma, che si ritrovava anche nella convivenza di istituzioni preesistenti al fascismo e di istituzioni da questo create ex novo. Una convivenza spesso dialettica se non ambigua. Appare, in proposito, interessante il fatto che la più celebrata rivoluzione economica del fascismo, cioè il corporativismo con quel che esso avrebbe dovuto comportare, finì per essere messa da parte dalla nascita, a partire dagli anni Trenta, di quello «Stato imprenditore» e di quella «economia mista» che sarebbero sopravvissuti al regime.
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