Abbiamo già capito di che campagna elettorale moriremo, di qui alle urne di marzo. Immersi nel conformismo come siamo, distingueremo mai tra menzogna e ignoranza, tra convenienza e mezza bugia?
Grazie a specchi mediatici che operano incessantemente nella deformazione della realtà, rimandandosi l'un l'altro fake di uso comune tra tivù, web, retroscenisti veri e presunti, per esempio, è passato il concetto che vi sia assoluta necessità di alleanze pre-elettorali. Nulla di più falso, come si sa, visto che il sistema proporzionale spinge all'esatto contrario, alla concorrenza spietata. Soprattutto tra simili. A chi serviva un messaggio così deformato? Magari al Pd per soffocare in culla qualsiasi tentativo di lista alla sua sinistra? Allo stesso modo, quando l'altra sera Silvio Berlusconi non ha fatto altro che descrivere un realistico orizzonte post-elettorale («Se nessuno vince, Gentiloni resta in carica fino alle nuove elezioni»), qualcuno ne ha approfittato per seminar zizzania tra Fi e Lega: ecco, vedete, c'è già l'inciucio Fi-Pd, è stato scritto e detto in una gara alla propaganda di serie C. Per cui il leader azzurro ieri s'è visto costretto a una smentita dell'ovvio. «Nessuna interpretazione politica, non ho mai voluto dire che noi preferiamo che vi sia una situazione per cui debba rimanere in carica il governo Gentiloni. Per noi c'è la certezza che il centrodestra vincerà e avrà i numeri per governare».
Dello stesso stupore s'è stupito Roberto Speranza, di Liberi e Uguali: «La prassi è esattamente questa». Ma già il suo più esperto collega, Pier Luigi Bersani, cogliendo la palla al balzo, chiudeva la porta a un Gentiloni-bis argomentando che «l'idea gattopardesca di cambiare per non cambiare nulla è pericolosa, non ho nulla contro Gentiloni, ma certe operazioni politicistiche, certe soluzioni di establishment, non fanno che aggravare il distacco dalla politica». Imbarazzato interveniva l'(ex) mediatore Piero Fassino: «Inutile infilarsi ora nella questione della scelta del prossimo premier». Dalle dichiarazioni degli uomini di Nazareno e dintorni, però, nel frattempo si evinceva un altro dato, assai meno approssimativo e ben più realistico. Cioè che la figura di Gentiloni non ha smesso di fare ombra a quella del candidato naturale pidino, Matteo Renzi, oltremodo infastidito del mancato offuscamento del rivale interno. Circostanza ben compresa da chi, come l'avveduto Pino Pisicchio, non smette di lavorare a una «lista Gentiloni»: una specie di «listino del presidente delle Regionali», ha spiegato, che consentirebbe al Pd di organizzare e allargare i consensi al centro, dando risalto a chi ha fatto parte del governo e ben figurato, tipo Beatrice Lorenzin e Carlo Calenda. «Il Pd potrebbe far candidare con noi personalità che richiamino l'esperienza di questi anni di buon governo», dicevano quelle che in queste ore stanno premendo su Dario Franceschini affinché conceda «copertura e peso» all'operazione. Eppure, perché abbia una minima possibilità di riuscita, necessita la «benedizione» di Renzi. Il quale, si dice, invece nicchia e cova rancori insondabili per lo stesso Gentiloni.
«È una delle punte con le quali giocare», semplifica Andrea Orlando. Eppure è evidente che se nel Psg vincente Neymar e Cavani litigavano pure per tirare i rigori, lo spazio in area pd, dove fuoriclasse latitano, è assai più risicato e gramo. Un niente e finiscono tutti in tribuna.
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