Mancano cinque mesi al referendum costituzionale, eppure già esplode la campagna che divide l'Italia tra il sì e il no alla riforma Boschi. Il premier Matteo Renzi ha deciso di farne un plebiscito sulla sua persona, gli schieramenti frantumati per il crollo delle ideologie si formano di nuovo attorno al bipolarismo referendario. La maggioranza si riorganizza per far vincere il sì e salvare l'esecutivo, a costo di allargarsi sempre più organicamente ai verdiniani, le opposizioni così diverse e lacerate tra loro trovano una battaglia da combattere insieme per il no, da Forza Italia a Lega, M5S, Fdi, Si.
Ieri i capigruppo del Pd Luigi Zanda, di Ap Renato Schifani e di Aut Karl Zeller hanno depositato in Cassazione le firme per il voto di ottobre. Con loro c'era Lucio Barani di Ala, accompagnatore dei delegati. Rappresentazione plastica di un futuro, possibile Partito della Nazione. Renzi, pur con la spina nel fianco della minoranza dem, continua a dividere il Paese in riformatori e conservatori. «Da soli possiamo vincere, ma voglio convincere e soprattutto coinvolgere gli italiani», scrive nella sua Enews. Per lui, «le ragioni del sì sono fortissime», ma più importante è vedere quanti si schiereranno per «un'Italia che non si ferma alla rassegnazione, al pessimismo, alla lamentela». Peccato che, come ricorda il capogruppo azzurro alla Camera Renato Brunetta nel 2006 Renzi si scagliò contro la riforma costituzionale voluta dal centrodestra sostenendo: «No a una riforma che riscrive 53 articoli e dà al premier poteri che nessuno Stato socialdemocratico prevede rendendolo inamovibile».
Il «Comitato per il no» considera «inaccettabile il clima da fine del mondo» sul voto referendario, inteso come «un plebiscito che leghi all'esito del voto popolare il governo in carica o la persona del premier». Questo di Renzi, dicono gli avversari della riforma, è «un ricatto» al Paese, dopo quello imposto al Parlamento, a suon di voti di fiducia. Il timore è che si voglia evitare un confronto nel merito, su una riforma «pessima per l'ispirazione di fondo, il contenuto normativo, la formulazione tecnica», sorretta da motivazioni «fragili, inconsistenti, contraddittorie, accentratrici e tendenzialmente autoritarie se viste insieme alla legge elettorale». Una bocciatura scritta nel manifesto di 56 costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky e Valerio Onida, Francesco Paolo Casavola e Ugo De Siervo, Giovanni Maria Flick e Enzo Cheli, Antonio Baldassarre, Lorenza Carlassare e Franco Gallo.
Anche per l'ex-presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il premier non avrebbe dovuto dare al referendum l'«accentuazione politica personale», «ha sbagliato a metterci un tale carico politico», perché «non è un trofeo che Renzi possa impugnare, non è un'incoronazione personale». Però, il senatore a vita sottolinea che «siamo in ritardo gravissimo» e avverte: «Se si affossa anche questo sforzo di revisione costituzionale, allora è finita: l'Italia apparirà come una democrazia incapace di riformare il proprio ordinamento e mettersi al passo con i tempi». Un'uscita che gli attira un mare di proteste, in testa il leader della lega Matteo Salvini.
Altra obiezione al referendum è quella che chiede lo spacchettamento dei quesiti. Alla campagna lanciata dai radicali per la libertà di voto su parti separate della riforma aderiscono in molti, dalla minoranza dem al M5S.
E anche i comitati radicali respingono la «guerra santa pro o contro Renzi». Ma ormai sarà difficile tornare indietro. «Il premier rischia grosso - dice Umberto Bossi-. Chi vuol cacciarlo da Palazzo Chigi andrà a votare No».