«Oggi ci siamo abituati a vedere i ragazzini dello Stato Islamico che sparano in testa ai prigionieri, ma i bambini somali dei miei tempi non erano meno pericolosi. Molti di loro venivano addestrati a lanciare una bomba a mano nei nostri blindati o nei nostri automezzi. La differenza è molto semplice. A quei tempi i terroristi non filmavano quelle operazioni perché non conoscevano il valore della propaganda. Inoltre non esisteva un canale come internet capace di portare quelle immagini, così forti, nelle case somale o in quelle occidentali. Chi guardava la televisione s'immaginava una missione senza problemi. Una missione dove i nostri soldati distribuivano aiuti e poi tornavano in base. Insomma quel che succedeva veramente sul terreno lo sapevamo soltanto noi soldati e il nostro nemico. Chi stava a casa dormiva tranquillo e non s'immaginava nulla». Il tenente colonnello Gianfranco Paglia la Somalia di 22 anni fa non può certo dimenticarla. Il 2 luglio 1993 il tenente Paglia è un giovane ufficiale 22 enne incaricato di comandare un gruppo di blindati del 183mo battaglione paracadutisti Nembo intrappolati nell'inferno della battaglia del Pastificio. Mentre un altro mezzo viene colpito dai lancia razzi dei ribelli fedeli al generale Aidid Paglia si sporge dalla torretta, cerca d'indirizzare il fuoco contro il nemico. Fino a quando un proiettile non lo colpisce alla spina dorsale.
Da allora si muove solo su una sedia a rotelle. Da allora è l'unico soldato italiano vivente a poter sfoggiare una medaglia d'oro al valor militare. Ma da allora non ha mai dimenticato i rischi e le crudeltà della guerra. Forse per questo la prospettiva di una missione in Libia, il rischio di un faccia a faccia con quei terroristi dello Stato Islamico che decapitano e bruciano vivi i prigionieri non lo impressiona più di tanto. «In Libia non andremmo certo per combattere, ma in ogni missione non sai mai cosa succederà. Anche la Somalia era, in teoria, una missione di assistenza alla popolazione civile. Poi è finita com'è finita. Comunque fronteggiare i terroristi dello Stato Islamico non è molto diverso dal fronteggiare gli uomini di Aidid, i qaidisti iracheni o i talebani afghani. La differenza la fa solo la propaganda. Vedere un uomo decapitato con un coltello o bruciato vivo in una gabbia fa rabbrividire, ma non è purtroppo diverso da quel che può succedere ad un militare in missione. Qualsiasi soldato sa che all'interno di un blindato colpito da alcuni tipi di trappole esplosive o dai missili anticarro si muore bruciati vivi. Detto questo la situazione dei ragazzi che potrebbero partire per la Libia oggi è molto diversa dalla nostra di 22 anni fa. Oggi gran parte dei militari italiani possono contare sull'esperienza di numerose missioni in Afghanistan, Iraq o Libano. Noi quell'esperienza non ce la sognavamo neanche. Oggi a differenza di allora, partono con equipaggiamenti, mezzi e attrezzature di prim'ordine. Com'ha dimostrato il teatro afghano i nostri blindati Lince sono in grado di resistere ad ordigni anche molto potenti. Sapere di poter sopravvivere ad esplosioni del genere non è cosa da poco. Per non parlare del giubbotto anti proiettile. Oggi è una dotazione banale a quei tempi neppure esisteva. L'avessi avuto io oggi non mi troverei su questa carrozzella». Ma Gianfranco Paglia ci tiene anche a ricordare che la sfortunata missione somala è stata la genesi di tutte le disgrazie successive. «Tra le fila di Aidid sono cresciuti molti terroristi che continuano a combattere nelle fila dello jihadismo internazionale. Quella volta noi occidentali abbiamo commesso l'errore di mettere fine ad una missione senza averla portata a termine.
E continuiamo a pagarne il prezzo. Quella decisione ha contribuito a diffondere l'idea che l'America, l'Onu e l'Occidente possono venir sconfitti e messi in fuga. Per questo oggi lo Stato Islamico tenta di terrorizzarci con le sue atrocità».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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