In assenza di twitter, instagram, facebook, tik tok e amenità varie, Jesse Owens si presentò ai microfoni delle radio americane e così disse: «Hitler non mi ignorò ma fu il nostro presidente ad ignorarmi. Non mi mandò nemmeno un telegramma». Roosevelt, dunque, accusato di discriminazione razziale dall'atleta che ha segnato la storia non soltanto dei Giochi dell'Olimpiade. Sport e politica sono divisi soltanto sulle pagine dei giornali ma procedono a fianco, usandosi, respingendosi, snobbandosi, perché la politica ha preso le cose peggiori dallo sport, compreso il dizionario, mentre alcune discipline sono intossicate dalla presenza fastidiosa, nel governo delle federazioni, di personaggi della politica. Prima di ogni avvenimento internazionale vengono suonati gli inni delle rispettive nazioni in gioco, dunque è la conferma che non basta l'agone ma la bandiera, e quello che si porta appresso, sono determinanti.
Ultime notizie di piccola cronaca riportano la replica di Suso a Salvini («Babbo Natale deve portarmi più grinta? Tu governa meglio un Paese che amo»), ed è forse la migliore e unica giocata dello spagnolo da quando indossa la maglia del Milan. Altri prima di lui, hanno ribattuto, con le parole, alle mosse dei politicanti. Lo stesso Salvini si è ritrovato addosso le battute di Balotelli, reduce da una bravata sul lungomare di Napoli: «Pensi alle cose serie». L'evento è pretesto per manifestare il proprio disappunto ideologico, Ozil ha lasciato la nazionale tedesca dopo le accuse, a lui mosse, per l'eccessiva vicinanza al presidente turco Erdogan, i due kosovari della nazionale svizzera, Xhaka e Shaqiri hanno mimato le ali dell'aquila bicipite, simbolo della bandiera albanese, nella partita vinta contro la Serbia. Se in Europa si tratta di fenomeni episodici, anche plateali grazie ai social, per la prudenza diplomatica dei migliori atleti, negli Stati Uniti sono i protagonisti delle più importanti discipline ad esporsi, a prendere posizione, ad attaccare il governo, il presidente, le istituzioni. Tommy Smith e John Carlos e il loro pugno chiuso in guanto nero, Cassius Clay poi divenuto Mohammed Alì con il rifiuto di andare a combattere in Vietnam, finendo così in carcere, Abdul Jabbar, già Lewis Alcinador prima della conversione all'Islam, leggenda del basket e dell'impegno civile in favore degli afroamericani discriminati e, sempre nella pallacanestro, Stephen Curry, a nome dei suoi compagni della Golden State Warriors, vincitori l'anno scorso nella Nba, si è rifiutato di andare in cerimonia alla Casa Bianca, occupata da Donald Trump, come ha scritto LeBron James: «Prima del tuo arrivo, venire alla Casa Bianca era considerato un grande onore». Colin Kaepernick, quarterback artista del San Francisco 49er, ha pagato duramente la sua ribellione alle violenze sugli afroamericani, si è più volte inginocchiato durante l'inno nazionale e lo hanno tagliato da qualunque operazione di mercato, lasciandolo senza contratto da due stagioni.
Se poi, di contro, citiamo il caso di Morris «Moe» Berg, campione di baseball e poi agente segreto del governo, spia al servizio di Washington, il totale non torna, la politica usa lo sport e lo sport ha l'allergia alla sottomissione. In confronto ai teatri americano e internazionale, Suso e Salvini sono buffe statuette del presepe nostrano.
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