Non lo sapevano nemmeno loro che quello sarebbe stato il loro ultimo giorno. Non lo sapevano i familiari né gli avvocati: nessuno era stato avvisato, come prevede la legge giapponese. I detenuti sono stati informati un'ora prima, portati nella stanza del carcere preposta e sistemati con la corda intorno al collo sopra al segno rosso che indica il punto in cui il pavimento si aprirà. In una stanza adiacente, tre funzionari hanno premuto contemporaneamente altrettanti bottoni, in modo da non sapere chi ha ucciso il condannato.
Ieri sono stati giustiziati così i 7 autori dell'attacco con il gas sarin nella metropolitana di Tokyo del 1995, che fece 13 vittime e migliaia di intossicati. Il leader della setta che rivendicò l'attentato, Shoko Asahara, è stato il primo a essere impiccato. Lui è stato condannato a morte in via definitiva nel 2006, ma i processi agli altri membri del gruppo si sono conclusi solo a gennaio.
Erano le 8 di un lunedì mattina, ora di punta sui mezzi pubblici, quando Asahara e cinque dei suoi seguaci salirono a bordo del metrò armati del gas letale in forma liquida, contenuto in sacchetti di plastica. Lasciarono le buste sul pavimento e le bucarono con la punta dell'ombrello. Poi scesero e si allontanarono come se nulla fosse. Tredici passeggeri morirono soffocati nel giro di pochi minuti, in quella che, in Giappone, rimane la più grave strage dalla Seconda guerra mondiale, nonché l'evento che mandò in pezzi la percezione dell'incrollabile sicurezza nazionale.
Il gruppo religioso responsabile dell'attacco - Aum Shinrikyo, o «Verità suprema» - fondeva buddhismo, induismo, cristianesimo e credenze apocalittiche. Nell'anno dell'attentato si stima contasse più di 10mila seguaci in Giappone e 30mila all'estero, soprattutto in Russia. Tuttora ne resta qualche migliaio, oltre a beni per un miliardo di yen (7,7 milioni di euro). Il fondatore e capo spirituale, Asahara, classe 1955, praticamente cieco, iniziò a raccogliere seguaci aprendo una scuola di yoga. Secondo gli inquirenti la sua rabbia nei confronti del prossimo nacque quando lui e 24 «compagni» non guadagnarono neanche un seggio alle elezioni del '90.
«Penso sia giusto che siano stati giustiziati - ha detto al quotidiano britannico The Guardian la moglie di una delle vittime, un addetto della metropolitana -. Purtroppo i genitori di mio marito e i miei sono morti. Penso che avrebbero voluto essere qui oggi per apprendere la notizia». La madre di un altro dei tredici deceduti ha spiegato che l'esecuzione le ha finalmente dato pace: «Ora posso visitare la tomba di mia figlia e raccontarle la novità». Reazioni in linea con i risultati di un sondaggio condotto dal governo giapponese nel 2014, secondo cui l'80,3 per cento dei cittadini sarebbe a favore della pena di morte. Negli Stati Uniti, l'unico altro Paese del G7 oltre al Giappone in cui è in vigore la pena di morte, la percentuale dei sostenitori scende al 50,4. I dati diffusi da Tokyo parlano di 28 impiccagioni dal 2012 al 2017. In passato il comitato Onu contro la tortura ha criticato il Giappone per la «pressione psicologica» esercitata sui detenuti e sulle loro famiglie per il fatto di non informarli sulla data dell'esecuzione a morte.
Amnesty International, organizzazione che si occupa di diritti umani, ha invece contestato, oltre al ricorso alla pena di morte in sé, il fatto di mandare a morire anche condannati con evidenti problemi psicologici, come secondo i suoi legali sarebbe stato lo stesso Asahara.
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