Partiti divisi, truppe allo sbando, leader senza bussola né timone, quorum a rischio Covid: a meno di tre settimane dal fischio di partenza, la partita quirinalizia si presenta così, e non è rassicurante.
Il rischio caos è evidente, e questo fa riaccendere le speranze di chi auspica un congelamento dello status quo e un bis di Sergio Mattarella, come soluzione la più indolore per un Parlamento assediato dal panico da voto anticipato. A proporre apertamente il rinnovo del mandato al presidente uscente (che nel messaggio di fine anno si è voluto icasticamente mostrare proprio sull'uscio) sono i senatori M5s, alcune correnti del Pd (Giovani Turchi in prima fila: «Una situazione di emergenza giustifica una soluzione emergenziale», spiega Matteo Orfini, «il Parlamento dovrebbe votare Mattarella chiedendogli il sacrificio»), persino esponenti della Lega come Bobo Maroni. Proposte che hanno motivazioni diverse: nel caso dei 5Stelle, quella di delegittimare ulteriormente la già assai flebile leadership contiana e di arginare possibili emorragie di voti grillini in direzione Berlusconi, se si candidasse; nel Pd, quella di intralciare i piani (pro-elezioni, sospettano in molti) di Enrico Letta, e di guadagnar tempo per una riforma elettorale proporzionale. E naturalmente la speranza di ostacolare il passaggio di Mario Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale, perché «finché c'è lui il governo c'è, e per buttarlo giù serve che qualcuno metta la faccia su una crisi, ma dopo?», dice il dem Stefano Ceccanti.
Ma la candidatura Draghi resta quella che ha più forza, sia per il profilo del candidato che per la assenza (tolta la incognita Berlusconi) di alternative dello stesso peso. Nessuno ancora la sponsorizza apertamente, ma nel partito pro-Draghi vengono arruolati ministri di peso e leader di partito: da Renato Brunetta al leghista Giancarlo Giorgetti a Enrico Letta. Giorgetti, che fu tra i primi a lanciarla ufficialmente, è inabissato: assente dal Consiglio dei ministri, ma con la precisazione che non c'è «alcun contrasto col premier», ha poi firmato (su richiesta di Salvini) una presa di distanza dall'obbligo vaccinale. Al tempo stesso, fa trapelare che arrivare a fine legislatura con questa maggioranza è difficile: «Un altro anno così sarebbe logorante». Un modo, spiegano nella Lega, per cercare di far capire all'indeciso Salvini che - se vuole onorevolmente uscire dal cul de sac di questa maggioranza - deve votare per Draghi.
Tra i supporter del premier viene indicato anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che tiene molto a far trapelare questa sua indicazione, anche se sono molti a sospettare che si tratti soprattutto di un modo per mettere in difficoltà lo smarrito Conte (e per prepararsi a ogni evenienza). Anche Letta viene arruolato da tutti, nel Pd, come un fautore del passaggio del premier al Colle. Ma sta ben attento a non dire parola, perché sa che - come dice un senatore dem - «deve stare attento a non fare la fine di Conte: se fa il nome sbagliato, molti sono pronti a sbranarlo nell'urna».
Ieri anche Goffredo Bettini (che si era detto prima favorevole e poi contrarissimo a Draghi presidente) ha disorientato i suoi seguaci, spiegando che se la politica «malata» non sa fare il suo mestiere, trovando l'accordo su «una figura di garanzia», è giusto che al Colle vada Draghi. Certo sarebbe la certificazione di una crisi dei partiti, ma «nessuno potrebbe lamentarsi»: «La tecnocrazia (quando ha un profilo altissimo e democratico come nel caso di Draghi) è indispensabile per mandare avanti un paese». Un modo, spiegano gli esegeti, per prendere le distanze dal «niet» anti-Draghi di Massimo D'Alema.
Ma tutti i giochi, a sinistra come a destra, sono per ora congelati dal convitato di pietra Berlusconi: «Il rischio», nota il dem Fausto Raciti, «è che tra immobilismo Pd, implosione M5s e confusione di Lega e Fdi, l'unico vero player politico sia il Cavaliere, che oltre alla propria candidatura può intestarsi Draghi, un Mattarella bis o un terzo nome».
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