«Le indiscrezioni di stampa su possibili dimissioni del ministro Tria sono prive di fondamento». La prima preoccupazione del Mef, ieri mattina, è stata quella rassicurare i mercati: Giovanni Tria non ha alcuna intenzione di dimettersi. E continuerà ad esercitare il suo ruolo di guardiano dei conti e di garante della sanità economica (e, in buona parte, anche mentale) del governo, con buona pace del febbrile vicepremier Di Maio e delle ansie elettorali dei Cinque Stelle.
Hic manebimus optime: dietro i toni felpati del comunicato, il Mef si guarda bene dallo smentire che pressioni scomposte su Tria ci siano state, da parte della maggioranza, e che lo stesso ministro abbia avuto su questo un colloquio con il premier Conte. Il cui esito, evidentemente, è stato una conferma: sulla legge di bilancio, la linea la detta Tria. Che in questa fase, sia pur per ragioni tutte di tattica politica, è silenziosamente spalleggiato anche dalla Lega, cui tutto sommato non dispiace vedere - dall'alto dei sondaggi salviniani - l'alleato grillino che annaspa. E i grillini reagiscono: «O la Lega ci dà il reddito di cittadinanza, oppure blocchiamo il dl Sicurezza di Salvini». Le tensioni nella maggioranza sono tali che ieri sera il previsto vertice sulla manovra è saltato, rinviato alla prossima settimana.
Di Maio è costretto ad esibirsi in faticose acrobazie declaratorie: da una parte assicura che «per carità, nessuno ha chiede le dimissioni di Tria», e che anche lui smentisce «categoricamente» quello che ieri, con tanto di suoi virgolettati, scrivevano i giornali: «Nessuna minaccia, nessun ultimatum, nessuna tensione». Poi, però, il vicepremier il suo miniultimatum lo deve rilanciare: «Il reddito di cittadinanza sarà al centro della legge di Bilancio: per noi è imprescindibile». Già, i Cinque Stelle non possono presentarsi alla campagna elettorale per le Europee con le pive nel sacco: finora, a parte la burletta del taglio ai vitalizi per qualche ex parlamentare, non hanno portato a casa neppure uno scalpo da dare in pasto ai propri elettori, cui avevano garantito mari e monti. Anzi, la ragion di governo ha imposto loro una serie di voltafaccia rispetto alle promesse elettorali, come dimostra il caso Ilva. E se per il partito grillino è indispensabili ottenere almeno un appiglio per poter raccontare in campagna elettorale che il reddito di cittadinanza si farà, per Gigino Di Maio la questione è di vita o di morte: il vicepremier sa bene che la Casaleggio, nel caso lui diventasse il simbolo di un governismo a somma negativa, ci metterebbe dieci minuti a sostituirlo con un Di Battista o un Fico qualsiasi. Così, l'entourage di Di Maio fa trapelare nuove minacce, rivolte stavolta non direttamente a Tria ma all'intero Mef. Il messaggio è: il ministro è ostaggio di una struttura tecnocratica che rema contro il governo, e in particolare contro Gigino. «Presto faremo un repulisti», è l'avvertimento, perché al Mef vogliono «bloccare il paese» e la sua rinascita, che le ricette casaleggiane certamente assicurerebbero. Invece di mettere prontamente sul piatto (magari stampandoli nottetempo) i 10 miliardi necessari al reddito di cittadinanza, «spiccioli» secondo i grillini, i perfidi burocrati economici «fanno resistenza». Ergo «faremo pulizia», si annuncia, «bonificando» e «colpendo» chi non collabora con i voleri del Movimento. «Con le minacce al ministro - denuncia la capogruppo di Fi Annamaria Bernini - il M5s rischia non solo di minare ulteriormente la credibilità internazionale dell'Italia ma anche di tagliare il ramo su cui siede». Di qui al varo della manovra, però, Tria rimarrà sotto tiro.
Il suo predecessore, Piercarlo Padoan fotografa così la situazione: «La condizione di Tria è molto diversa da quella in cui mi trovavo io, perché il nostro governo era molto più coeso. Il problema di Tria è che ogni giorno i suoi colleghi di governo dicono cose diverse tra di loro, e diverse da quelle che dice lui».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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