Al tribunale di Torino la lentezza è legge

Il documento: i giudici possono decidere la priorià dei processi. Ed è caos

Al tribunale di Torino la lentezza è legge

«La prego di capirmi, per me è un momento psicologicamente difficile...». La voce di Mario Barbuto, fino al 2014 presidente della Corte d'appello di Torino, suona sinceramente provata. Nella «sua» Corte un processo è rimasto fermo dieci anni, con il risultato che il violentatore di una bambina se l'è cavata con la prescrizione. E questo nel palazzo di giustizia che Barbuto si vantava di avere portato a efficienza mai vista, e venne chiamato per questo a Roma accanto al ministro Orlando.

Su come nell'efficiente tribunale torinese una follia simile possa essersi trascinata per dieci anni, Barbuto dice di non sapere nulla: ma spiega che a fissare i calendari d'udienza sono i singoli presidenti di sezione della Corte, che saranno dunque i primi a finire nel mirino dell'azione disciplinare che sta per partire sull'onda dell'indignazione a tutti i livelli (un membro del Csm, il giudice Ardituro, ieri dice persino «mi vergogno di fare parte di questa categoria»). Ma il rischio è che anche stavolta si colpisca il colpevole del singolo caso senza affrontare il tema drammatico che gli sta dietro.

Lo scandalo di Andrea Lombardozzi, il violentatore di Ovada premiato con la prescrizione, non è un caso isolato. Nello stesso palazzo di giustizia torinese il presidente del tribunale Massimo Terzi ha scritto appena pochi giorni fa al procuratore Armando Spataro descrivendo in termini crudi la situazione dell'ufficio, parlando di «estrema difficoltà», «circa il 70 per cento dei procedimenti penali veniva fissato a tre anni dalla richiesta con trend in drastico peggioramento», e indicando una serie di linee guida per fronteggiare le prescrizioni: tra cui, inevitabilmente, quella di dare per morti i processi cui mancano meno di due anni alla estinzione. Una resa. Inevitabile, ma una resa.

Il carteggio tra Terzi e Spataro nasce sull'onda della circolare che il Consiglio superiore della Magistratura invia l'11 maggio 2016 per cercare di mettere ordine nel caos che regna nei tribunali, venuto alla luce con uno scontro furibondo tra procuratore e presidente del tribunale a Belluno, dove il primo accusava il secondo di aspettare anni a fissare i processi. Il Csm invita i capi degli uffici a collaborare, i procuratori a non sommergere i tribunali di richieste inutili. Ma non affronta il vero nodo, il feticcio della obbligatorietà della azione penale, quella che rende tutti i reati ugualmente meritevoli di indagini, processi e sentenze: le fesserie come gli orrori.

È una lettura interessante, quella circolare del Csm. Perché ammette che le «priorità» di fatto esistono già, e a decidere quali reati perseguire e quali tralasciare sono di fatto i procuratori capi, e lo fanno «attraverso la distribuzione discrezionale delle risorse umane e tecnologiche, il concreto impiego della polizia giudiziaria», eccetera: «e dunque a prescindere dalla eventuale enunciazione di un catalogo di reati prioritari». Tradotto, significa che i procuratori scelgono quali reati combattere, ma in modo «discrezionale», ovvero arbitrario, e senza renderlo noto: fino arrivare all'«accantonamento o postergazione», ovvero passaggio in secondo piano, dei processi considerati inutili o irrilevanti.

Di fatto, il principio della obbligatorietà dell'azione penale, come denunciano invano da tempo gli avvocati, diventa lo strumento per scelte insindacabili e fuori controllo, diverse da una città all'altra ma tutte fuori

controllo. La produzione di processi inutili destinati a morire è la nebbia in cui ogni procura, tribunale, corte d'appello può invocare la carenza di mezzi per fare quello che vuole. E amen se qualche violentatore la fa franca.

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