Politica

Il trionfo del populismo coi governatori alla Orban

L'esaltazione delle virtù di campani, pugliesi, liguri. E un repertorio di "vaffa" che asfalta Grillo

Il trionfo del populismo coi governatori alla Orban

Sono tornate le tribune politiche, si confrontano il beige e l'écru e morettianamente si «gridano solo cose buone e giuste». A leggere certi editoriali post voto, vedi Repubblica, Foglio e Domani, il crollo dei 5 Stelle e la delusione della Lega in alcune Regioni sembrano segnare per la politica italiana l'ora X della fine del populismo e del sovranismo.

Ma la verità è che la bestia dell'anti-casta è viva e votante. Solo che nell'urna non parla più con la voce dei 5 Stelle. Il M5s ha tradito ogni aspettativa e principio, basti vedere il caso Appendino che a norma di statuto, come ha segnalato Lorenzo Borrè, l'avvocato anti Grillo e Casaleggio, dovrebbe essere espulsa dopo la condanna e invece se la cava con una pilatesca autosospensione. E il Sì al referendum, lettori del Foglio a parte, è arrivato da chi è convinto che i parlamentari siano solo mangiapane a tradimento.

Il segnale più chiaro della vitalità delle istanze populiste lo dà però il voto regionale. Se è vero che la Lega è calata al Sud e i 5 Stelle sono dappertutto ininfluenti, a riscuotere il capitale elettorale lasciato libero sono soprattutto i governatori che più hanno abbracciato le istanze e le forme comunicative del populismo e di un sovranismo regionale mai così marcato e diffuso. Non a caso sono stati premiati tutti i governatori uscenti che con il Covid, da responsabili della Sanità, ricevuta inedita visibilità, si sono scatenati in ordinanze creative, hanno tirato fuori un apparato propagandistico che esalta le virtù superiori di pugliesi, campani, liguri, veneti. Perfino il composto Giovanni Toti ha saputo aizzare il suo popolo sul caso Autostrade, minacciando di «denunciare il governo», accusando «De Micheli offende i liguri» o arringando che «delle concessioni non me ne frega nulla».

Luca Zaia non ha mai smesso di premere sul pedale del Veneto libero, come quando ha chiesto al ministro Provenzano «perché l'autonomia no in Veneto e sì in Sicilia?». Ma è soprattutto per Michele Emiliano e Vincenzo De Luca la battaglia contro il coronavirus si è trasformata in una campagna identitaria tipica del sovranismo e in una comunicazione sopra le righe da manuale populista. Così De Luca ed Emiliano, entrambi soprannominati «lo Sceriffo», hanno recuperato da una disfatta che fino a qualche mese fa pareva certo. Emiliano si è autodenunciato «Sono un populista istituzionale» e festeggiando la vittoria ha sfoggiato i muscoli: «La Puglia non ha piegato la schiena davanti a nessuno». In campagna elettorale ha puntato tutto sulla sanità, al punto da candidare il suo virologo di fiducia, e si è lamentato che «in questi anni la sanità del Sud è stata mortificata dai viaggi della speranza» per curarsi in Lombardia.

Peggio ancora De Luca, l'Orban del Vesuvio, che mentre vietava capricciosamente la pizza a domicilio vantava i presunti successi della sanità campana comparandoli con «la Lombardia dove ci sono i morti per strada, non negli ospedali». Ha anche minacciato di «chiudere i confini se la Lombardia riapre». E sciorinato nelle costanti comparsate sui social un lessico che asfalta il Vaffa di Grillo. Qualcuno ha raccolto i suoi epiteti più classici: «Cafoni, infami, sfessati, animali, mezze pippe, farabutti, nullità, chiavica, pulcinella, chiattona, jettatori, bestie, anime morte, consumatore abusivo di ossigeno, ci vuole il lanciafiamme, cinghialone, fratacchione».

Decisamente non da tribuna politica.

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