Troppo tardi per Julen. I minatori in lacrime: "Sembrava che dormisse"

Il bimbo di due anni caduto 13 giorni fa in un pozzo vicino Malaga è stato trovato morto

Troppo tardi per Julen. I minatori in lacrime: "Sembrava che dormisse"

Madrid Troppo tardi. Gli angeli che avrebbero dovuto salvarlo, non ci sono riusciti. Sapevano già al nono giorno di soccorsi che ormai era impossibile, ma ci hanno voluto provare fino alla fine, con ogni sacrificio. Fino al tragico epilogo di venerdì notte, quando la squadra speciale di otto minatori, aprendo con lo scalpellino un buco nello strato di roccia, a 71 metri di profondità del pozzo artificiale, hanno visto, rannicchiato come un feto, il corpo senza vita di Julen. Erano le 1,25 del 26 gennaio. I minatori, giunti martedì scorso dalle Asturie su un aereo dell'Aereonautica spagnola, con gli occhi rossi d'emozione sono risaliti in superficie, lasciando che due agenti della Guardia Civil scendessero nel ventre del primo tunnel scavato in una corsa contro il tempo, per riconoscere ufficialmente e restituire per qualche attimo ai genitori straziati dal dolore, il cadavere del piccolo di due anni, precipitato nel pozzo d'introspezione domenica 13 gennaio.

A Totalán, un lembo anonimo di Andalusia, trenta chilometri a Nord della più conosciuta Málaga, tutti ci hanno creduto fino alle prime ore di sabato. Anche se era impossibile per un bimbo di ventiquattro mesi sopravvivere senza acqua né cibo per tredici maledetti giorni a quasi cento metri di profondità. «Non ce l'abbiamo fatta... #RIPJulen», ha twittato la Guardia Civil. Per tredici giorni ognuno si è speso nel piccolo borgo andaluso, dagli oltre trecento soccorritori, tra pompieri, minatori e agenti della Guardia Civil alle decine di abitanti che ogni giorno hanno cucinato pasti e cene, portato panini e bibite per tutti. Hanno custodito nel cuore la grande speranza che quel tragico incidente, si trasformasse in una grande festa, col piccolo malagueño restituito a papà José e mamma Victoria che ora non hanno più lacrime, chiusi nella loro modesta casa a un centinaio di metri da quel maledetto pozzo che si è mangiato la vita del loro secondo figlio, dopo che Òliver, il primogenito di tre anni, nell'estate del 2017 era morto per una patologia cardiaca.

Le operazioni di soccorso erano iniziate la sera di domenica 13, un po' in sordina e in ritardo. Tra lunedì e martedì sono arrivate le escavatrici e una trivella speciale da Madrid, assieme a cento uomini, poi saliti a trecento. Da subito si è iniziato a scavare in parallelo al pozzo un tunnel da intubare per permettere ai minatori di individuare il punto esatto dove il radar, forse, aveva segnalato Julen. Ma le misure erano sbagliate, il condotto circolare in acciaio per ben due volte si è incastrato nella roccia, ritardando così i lavori. Nel frattempo un'altra squadra di minatori bucava con l'escavatrice il fianco sinistro della collina per raggiungere in diagonale il bimbo. E mentre si scavava nuovamente per introdurre il tubo e l'ascensore, un secondo pozzo, sempre parallelo a quello maledetto che intrappolava Julen, veniva trivellato in una corsa disperata contro il tempo, contro gli strati di roccia granitica e contro la pioggia che appesantiva il terreno.

Giovedì sera, finalmente, gli otto minatori sono scesi a settanta metri di profondità, dentro il tubo che bucava come un enorme ago la roccia. Hanno scavato prima un passaggio, poi un secondo, poi un terzo e infine un quarto, cercando lo strato più morbido.

Hanno fatto brillare mini cariche di esplosivo, hanno scavato a mano, con lo scalpellino da scultore. E, infine, dopo avere movimentato 40mila tonnellate di terra, pari a 90mila metri cubi, l'hanno raggiunto. «Sembrava dormisse», ha detto in lacrime uno speleologo col viso gonfio di fatica.

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