
Provare a rimettere insieme i cocci della "Macronie", tumefatta dalle urne la scorsa estate, ingessata dal presidente alla bene e meglio, e infine affidata nella sua lungodegenza al centrista Bayrou dopo la caduta del primo taumaturgo individuato post crisi dell'Assemblée, quel Michel Barnier proveniente dai neogollisti durato meno di tre mesi a Matignon fino allo scorso dicembre, ha il sapore della mission impossible, per Macron. Eppure una exit strategy per liberarsi dall'ennesimo stallo, dopo la certificazione parlamentare dell'ingovernabilità frutto di un indirizzo ostinatamente centrista, si profila all'orizzonte.
Più di un consigliere del presidente ha sondato l'opzione "proporzionale", per offrire una controproposta diversa (e più funzionale agli attuali equilibri) da quelle calate finora da Macron a senso unico, ad excludendum delle cosiddette ali estreme e inconcludenti nelle risposte da fornire a una Francia in emergenza: dal potere legislativo paralizzato per mancanza di maggioranza, in crisi sociale con il settembre caldissimo già annunciato dalle piazze, in Sos finanziario e con una guerra alle porte dell'Europa. Così l'ha dipinta ieri brutalmente Marine Le Pen. Se per la leader del Rassemblement national il vero reset risiederebbe nelle dimissioni del presidente, da anticipare rispetto alla naturale scadenza 2027, un altro scenario potrebbe metter d'accordo l'arco parlamentare; inclusi lepenisti e altre porzioni estromesse finora da ogni ipotesi di coabitazione.
L'ipotesi "coabitazione" non sembra infatti tra quelle percorribili, per Macron: anche se fino al suo arrivo era il segno distintivo della V Repubblica nei momenti di crisi; garanzia di stabilità pur nelle repentine inversioni di marcia che hanno comportato, quando a far girare il motore transalpino erano socialisti e neogollisti, con altri partiti ridotti a comprimari. Né quella di ri-votare con l'attuale sistema, pare praticabile. I sondaggi provano che se si andasse alle urne domani, o rapidamente con nuovo scioglimento dell'Assemblée da parte del capo dello Stato, il Parlamento resterebbe diviso in tre poli almeno: 33% per lepenisti e alleati, 26% per la coalizione di sinistra che va dai socialisti ai verdi, fino ai comunisti e ai movimentisti della France Insoumise di Mélenchon, l'estrema gauche che nei numeri guida il Fronte popolare; 16% per i macroniani di Ensamble di fatto alleati con i neogollisti, i quali avrebbero solo il 10% alle urne (dunque non oltre il 26% sommando i rispettivi deputati); 15% altri partiti. Di fronte a concittadini saturi di parole, si ritengono percorribili solo due vie. La prima passa dalla rapidissima nomina di un premier dell'alveo centrista come Sebastien Lecornu o del centrodestra come Xavier Bertrand, o attingendo a vecchie figure socialiste ormai fuori dai radar e dai giochi di partito da tempo, considerati alla stregua di tecnici, come per esempio Pierre Moscovici, presidente della Corte dei Conti, intervenuto tra gli applausi a Cernobbio. Ma per far cosa, senza maggioranza? Fluidificare i dialogo tra partiti, creare un governo non di coalizione ma di "non sfiducia" con il Ps, modello patto tedesco pur senza contratto. E provare ad arrivare al 2027.
O, seconda opzione, un premier che si impegni a traghettare la Francia verso il sistema di voto proporzionale; valutando un premio di maggioranza come alle regionali, che dia, a quel punto, stabilità. E più indipendenza a partiti e leader con bisogno di differenziarsi in vista delle presidenziali. Che potrebbero, dunque, dargli una chance.