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Trump nei guai per la telefonata. Rischia di finire sotto inchiesta

Potrebbe essere considerato un reato la richiesta di "trovare voti" fatta al segretario di Stato della Georgia

Trump nei guai per la telefonata. Rischia di finire sotto inchiesta

Dopo di me il diluvio. Donald Trump lacera il Partito repubblicano, è sospettato di aver commesso reato con la telefonata al segretario di Stato della Georgia e la sua agenda spinge tutti i dieci ex capi del Pentagono a pronunciarsi per una transizione pacifica: «È finito il tempo per mettere in discussione i risultati delle presidenziali».

Alla vigilia del voto del 6 gennaio, in cui il Congresso è chiamato a ratificare l'esito delle presidenziali del 3 novembre, The Donald trascina di nuovo il Paese in una contrapposizione pesante e rischiosa. Ogni sua dichiarazione e ogni suo tweet vengono letti e interpretati nel timore che possano surriscaldare ancora gli animi dei suoi supporter, pronti alla protesta a Washington per il D-Day di domani dopo il tweet di incoraggiamento del presidente: «Siate lì, sarà selvaggio». Si spiega anche così la presa di posizione degli ex vertici del Pentagono, inclusi due ministri della Difesa di Trump, Jim Mattis e Mark Esper, che in un messaggio al presidente pubblicato sul Washington Post tentano di far ragionare il leader repubblicano sul rischio di chiamare l'Esercito a dirimere questioni politiche: «Coinvolgere le forze armate nella risoluzione delle dispute elettorali ci porterebbero in un territorio pericoloso, illegale e incostituzionale».

Domani, durante la seduta del Congresso, circa 140 deputati e una dozzina di senatori repubblicani che seguono il presidente lungo la strada del «never surrender» - arrendersi mai - solleveranno obiezioni ai voti che il collegio elettorale invierà a Washington per annunciare il vincitore formale delle elezioni. Il terreno di battaglia è sempre lo stesso: si contestano i risultati del voto in Stati come Arizona, Michigan, Pennsylvania, Wisconsin e la Georgia, al centro dell'ultimo braccio di ferro. La mossa non andrà certamente in porto ma spacca il partito tra fedelissimi a Trump e fedelissimi al buon nome del «Grand Old Party», quelli che il presidente in un tweet ieri ha chiamato «il gruppo della resa». Fra questi il leader dei repubblicani al Senato Mitch McConnell, che ha già definito «un errore» la strategia, e il senatore Pual Ryan, convinto che sia «difficile pensare a un atto più antidemocratico e anticonservatore di un intervento federale per ribaltare l'esito delle elezioni certificato dagli Stati».

Il tentato assalto allungherà le procedure (ogni obiezione si dibatte per due ore) ma non potrà ribaltare l'esito delle presidenziali visto che le obiezioni vanno sollevate da entrambe le Camere per avere successo e la Camera dei Rappresentanti ha una maggioranza democratica mentre la maggioranza del Senato sarà decisa oggi nei ballottaggi per i due seggi da senatore in Georgia. Eppure Trump e i suoi seguaci amano oltrepassare i limiti. E stavolta il presidente, proprio sul caso Georgia, potrebbe avere oltrepassato anche quelli del diritto penale, secondo alcuni esperti. Nel mirino c'è la telefonata di sabato scorso diffusa dal Washington Post, in cui il presidente chiede al segretario di Stato della Georgia (che ha già provato a contattare ben 18 volte tra le elezioni e sabato secondo Cnn) di «trovare 11.780 voti» per decretare la propria vittoria, minacciando conseguenze quando Brad Raffensperger gli spiega che non può. Secondo diversi esperti legali, tra cui Anthony Michael Kreis, docente di diritto alla Georgia State University, Trump ha violato gli statuti federali e statali, tanto che due deputati dem hanno chiesto all'Fbi di indagare. Si tratterebbe di incitamento alla frode elettorale. Un reato per la Georgia, oltre che «il peggior abuso di potere della lista del presidente» secondo i rivali.

In questo caso, a differenza che per i potenziali reati finanziari legati alle sue attività imprenditoriali, Trump non potrebbe autoconcedersi o ricevere il perdono presidenziale.

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