D opo aver aperto la via del disgelo con la Cina a Richard Nixon, Henry Kissinger conferma il suo ruolo di mediatore e scende di nuovo in campo per la distensione con Pechino. Mentre scoppiava la polemica per la telefonata di Donald Trump alla presidente di Taiwan, l'ex numero uno della diplomazia americana era nella capitale del paese asiatico, seduto di fronte al presidente Xi Jinping, per spiegargli la dottrina del tycoon.
Ieri, invece, l'ex segretario di stato durante le amministrazioni di Nixon e Gerald Ford ha fatto il suo ingresso alla Trump Tower di New York, per incontrare privatamente il Commander in Chief eletto e discutere il nodo cinese. E se la mossa di The Donald nel chiamare la leader di Taiwan non è stata frutto dell'improvvisazione ma il risultato di uno studio approfondito, tanto lo è stata con tutta probabilità la visita di Kissinger a Pechino come ambasciatore informale, nelle ore della polemica tra i due Paesi. Trump ha detto di nutrire per lui «un enorme rispetto», e di «apprezzare i suoi consigli». D'altronde il 93enne diplomatico è stato autore di alcune delle principali svolte nella politica internazionale del Novecento, ha vinto il Nobel per la Pace nel 1973 per i suoi sforzi nel porre fine alla guerra in Vietnam, ed è colui che ha avviato il disgelo degli Usa con la Cina, culminato nel viaggio dell'allora presidente Nixon a Pechino.
Durante l'incontro di venerdì scorso Xi ha espresso allo statista la fiducia di «stabili e duraturi» progressi nelle relazioni con gli Stati Uniti, e per la stampa cinese Kissinger sta giocando un ruolo chiave nel tracciare la politica estera del miliardario newyorkese. «Sono stato molto colpito dalla reazione calma della leadership cinese, che suggerisce la volontà di vagliare la possibilità di sviluppare un dialogo», ha commentato da parte sua l'ex titolare di Foggy Bottom al ritorno negli Usa. Kissinger ha incontrato Trump anche poco dopo le elezioni, dicendo di lui che «è unico, perché non ha un bagaglio di obblighi verso alcun gruppo particolare, ma è diventato presidente sulla base della sua strategia». «Non si dovrebbe insistere a inchiodare Trump su posizioni che ha tenuto in campagna elettorale - ha aggiunto - Ora bisogna sviluppare una strategia che risponda alle preoccupazioni emerse nei mesi scorsi, ma che si leghi ai temi principali della politica estera americana».
Nel frattempo, in Texas, un grande elettore ha annunciato che non rispetterà l'esito delle urne nel suo stato e il 19 dicembre (quando verrà ufficializzata l'elezione) non darà il voto a Trump. Al New York Times Christopher Suprun ha spiegato che non se la sente di appoggiare «qualcuno che mostra quotidianamente di non essere degno della presidenza». Suprun ha suggerito di trovare un'alternativa repubblicana al tycoon, teoria condivisa anche da altri elettori «infedeli». Una presa di posizione che molto difficilmente, però, porterà il presidente eletto sotto la soglia di 270 necessaria per la conquista della Casa Bianca.
E pur se Trump non si è ancora insediato a Pennsylvania Avenue, in campo democratico c'è già chi guarda al 2020. È il vice presidente Joe Biden, che non si è candidato quest'anno perché ancora troppo provato per la morte del figlio Beau, ma potrebbe farlo tra quattro anni. A sorpresa Biden, che ha 74 anni, non ha escluso la sua candidatura, anzi.
«Correrò per la presidenza nel 2020», ha risposto con un sorriso ai giornalisti, precisando poi a chi gli chiedeva se stesse scherzando: «Non mi impegno a non correre. Ho imparato da tempo che il fato ha un suo strano modo di intervenire».
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