Ha lavorato per quattordici anni in un ambiente denso di fumo. Costretto giorno dopo giorno, ora dopo ora, a sopportare quell'aria irrespirabile.
Ora il novantenne, in pensione da tempo, ha finalmente segnato la sua vittoria. Anche se amara. La Cassazione ha confermato la condanna per Poste italiane a risarcire con 174mila euro l'ex dipendente, che si era ammalato di tumore dopo aver lavorato in quei locali dal 1980 al 1994.
Per la Suprema Corte conta poco che solo con la legge Sirchia, nel gennaio 2005, le bionde siano state vietate da spazi pubblici e posti di lavoro. Proprio per questo la sentenza è destinata a fare storia.
I giudici di primo grado di Messina, infatti, avevano accolto la domanda del pensionato, che chiedeva di essere risarcito per aver contratto un tumore faringeo, diagnosticato dopo aver smesso già da sette anni di lavorare. Poste italiane aveva fatto ricorso, sostenendo che non c'erano i presupposti. Ma nel 2014 la Corte di Appello di Messina aveva nuovamente confermato la sentenza di primo grado. E ora la Suprema Corte ha chiuso il capitolo ribadendo la validità della pronuncia del Tribunale della città siciliana.
Per il pensionato, che mai nella sua vita aveva toccato una sigaretta, quel tumore alla faringe aveva rappresentato una vera e propria via crucis. I medici l'avevano rimosso chirurgicamente, ma l'intervento era stato causa di un'invalidità permanente al 40 per cento. Aveva infatti subito danni alle corde vocali e gli erano caduti tutti i denti, costringendolo da allora a un'alimentazione liquida.
Nel corso dei processi precedenti i consulenti avevano stabilito una «eziologia professionale» della patologia. In parole semplici il perito aveva accertato che l'uomo non aveva familiarità con questa malattia, non abusava di alcool ma «era stato esposto in modo significativo all'inalazione di fumo passivo riconosciuto, secondo le acquisizioni della scienza medica, quale causa di cancro delle vie aeree superiori per circa quattordici anni e per una media di almeno sei ore al giorno».
Di parere contrario i legali di Poste italiane secondo i quali non poteva esserci un legame certo tra l'esposizione al fumo e il sopraggiunto tumore, soprattutto perché quando la patologia era insorta il dipendente aveva smesso di lavorare già da tempo. Ma anche la sentenza di secondo grado è andata a favore dell'anziano. Le Poste hanno tentato l'ultima carta: la Cassazione, sostenendo anche che il risarcimento offerto all'ex dipendente era esagerato per un tumore operabile.
Ma la questione si è chiusa con ordinanza 276/2019 che ha deciso che la strada seguita dai giudici in primo grado era stata articolata e coerente. «La Corte di merito si legge nella sentenza facendo richiamo agli esiti degli espletati accertamenti medico-legali, ha reso una motivazione congrua e completa, che rende ragione della eziologia professionale della patologia contratta dal lavoratore e si sottrae, pertanto, alle censure all'esame».
Secondo la Suprema Corte quello espresso da Poste italiane è un «mero dissenso in relazione alla diagnosi operata dal consulente tecnico d'ufficio, cui la Corte di merito ha prestato adesione», mentre le censure della società sono «del tutto generiche, in particolare, quelle espresse in ordine alle carenze della valutazione medico-legale operata dall'ausiliare di secondo grado per quanto riguarda la gravità e il carattere invalidante del quadro patologico riscontrato a carico dell'interessato».
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