Non ha affatto smesso di arrabbiarsi. La mediocrità continua a irritarlo, le parole degli sciocchi sono nuvole di iprite e il gregge lo incattivisce, solo che adesso non ha più tempo per le cose degli stolti. È come se avesse imparato a lasciarsi scivolare addosso le chiacchiere della politica. Non replica, non controbatte, non si fa il sangue amaro, non va di fioretto e di puntiglio. L'impresa che ha davanti non permette distrazioni, perché questa volta l'Italia si gioca tutto, da qui alle prossime sette generazioni, e lui si trova a un incrocio strategico. Lo ha compreso subito: se non si cambia lo Stato, il rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini e imprese, tutto il resto rischia di essere inutile. La sua sfida adesso è con la burocrazia ed è un mostro dalle troppe teste. La seconda vita di Renato Brunetta comincia proprio da qui. «Non vado più in tv. Non conta ciò che dico, ma quello che faccio».
Nelle stanze del governo raccontano che sia uno dei ministri più in sintonia con la visione di Draghi. Qualcuno lo dice quasi con sorpresa, perché in molti avrebbero scommesso in uno scontro quotidiano con i colleghi, con i mandarini di palazzo, con i sindacati. Nulla di tutto questo. Nessuna polemica con Pd e Cinque Stelle. Non parla di questioni irrilevanti e non si preoccupa del passato, cioè di Conte. Non ne ha chiaramente nostalgia, ma non si è neppure messo a fare il gioco delle bandiere o delle identità. Non gli interessa il consenso e neppure le elezioni. La missione adesso è decisamente un'altra. Non è un caso che è tra i primi che si è messo al lavoro sulle riforme.
Ci vuole tanto coraggio e un po' di follia per cambiare la pubblica amministrazione. È una di quelle cose di cui si parla da sempre, ma poi ci si perde, perché è come inoltrarsi in un labirinto di cui nessuno forse davvero possiede la mappa. L'unica voce che senti è quella minacciosa del Minotauro e ti ricorda che se solo provi a toccare qualcosa sei finito. Quella voce Brunetta la conosce. Ci ha già fatto i conti una volta. Solo che ora è diverso. Non ci sono altre possibilità.
Non puoi realizzare un piano come quello disegnato con i fondi del Next Generation con una burocrazia grassa, lenta, cieca e che divora tutto quello che gli passa davanti. Il guaio di una burocrazia irrazionale è che danneggia i «buoni» e finisce, anche senza volerlo, per proteggere i «cattivi». Non permette a chi lavora nello Stato di assumersi le proprie responsabilità e scaraventa nel labirinto i «sudditi» di Minosse. Il risultato è che la burocrazia si mangia la fiducia. Nessuno si fida dell'altro, per lo Stato il cittadino è il solito sospetto, per il cittadino lo Stato è qualcosa da cui stare alla larga. L'unico rapporto possibile diventa l'inganno.
Il sogno di Brunetta è interrompere questo corto circuito. È la fiducia il suo antidoto e la fiducia nasce dalla responsabilità e dal lavoro. È chiaro che per fare questo c'è bisogno di semplificare. Le norme sono servite spesso più che a chiarire a generare confusione. Le norme sono servite a nascondersi, a sviare, a creare uno scenario dove gli statali sono tutti innocenti e gli altri tutti presunti colpevoli. È quello a cui Brunetta sta lavorando da un paio di mesi. È la «madre di tutte le battaglie». È da lì che bisogna partire, dalla burocrazia, per poi mettere mano al welfare, al fisco, alla giustizia, alle infrastrutture.
Non è che siano arrivati attacchi. Il primo è stato quello sui concorsi. I criteri di accesso e la prima scrematura. Brunetta ha puntato sui titoli. Tito Boeri e Roberto Perotti lo hanno bocciato senza appello: penalizza i giovani e crea precari. Il vecchio Brunetta ne avrebbe fatto una questione di principio, rispondendo senza esclusione di colpi. Non è che l'affondo dei due economisti gli abbia fatto piacere. Non lo ha fatto però diventare un affare di Stato. Si è limitato a dire che tutto dipende dai titoli. Se si parla di laurea, master e esperienze all'estero le nuove generazioni sono favorite.
L'ultima cosa che vuole è una pubblica amministrazione di vecchi, perché quella esiste già.Questa è la sua grande battaglia e punta a lasciare il segno. Non ha lobby, interessi o partiti da difendere. La sua unica ambizione è cambiare lo Stato. E ce ne vorrà tanta.
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