Gli U2 fanno sognare Roma sulle note di «The Joshua tree»

Un concerto vintage capace di regalare sonorità uniche: fanno rivivere un'epoca. Noel Gallagher «spalla» di lusso

Paolo Giordano

da Roma

Ma guardateli come se la godono sul palco, sembrano ragazzini. E invece sono gli U2 che celebrano i 30 anni del loro disco decisivo: The Joshua Tree, roba da 28 milioni di copie vendute che hanno cambiato il rock anni '80. Prima c'erano il post punk, la new wave, i new romantics e il dark, con spreco di tinte per capelli, merletti e depressione. Poi soltanto gli U2 e i loro imitatori.

Stadio Olimpico incandescente per il caldo, 120mila persone in due concerti (stasera il secondo) ma un solo comun denominatore: il ritorno dei suoni ruvidi ma non spigolosi, il blues (s)piegato al pop, l'essenzialità di una band con solo quattro musicisti che riempie un'arena immensa con la forza delle canzoni. E non è un caso se stavolta il pubblico mette in gioco non soltanto il proprio amore per un gruppo rock ma anche i propri ricordi, l'adolescenza, il brivido che negli anni Ottanta poteva arrivare solo da canzoni ribelli e inconsuete come Sunday bloody sunday. Infatti, anche qui all'Olimpico, il verso «I can't believe the news today» apre il concerto con Bono che arriva pian piano sul piccolo palco con tutti gli altri mentre The Edge arrota il riff di chitarra con la fluidità di chi lo suona da 35 anni davanti a platee sterminate. Poco dopo, alla fine di Bad e prima di Pride, a sorpresa improvvisano Heroes di David Bowie e potete immaginare l'euforia del pubblico. Poi tutti si ritrovano sul palco principale e il megaschermo alle loro spalle, orizzontale e immenso, si accende quando iniziano i brani di The Joshua Tree. In fondo questa sterminata distesa di pixel è davvero il quinto componente della band. Talvolta spiega i testi inserendo volti oppure scritte. Ma spesso è concentrato ad amplificare i protagonisti, a richiamare l'attenzione su quel puntino là in fondo che corre da un lato all'altro del palco (Bono) oppure su quel musicista dinoccolato che accende al basso il superclassico New Year's day (Adam Clayton). Insomma, a questo giro il concerto degli U2 è un'epopea vintage, la celebrazione di un periodo cristallizzato nella storia della musica che però, proprio come nella prima data del tour a Vancouver, conferma la propria intensità emotiva. «L'unica differenza tra quel concerto e questi di Roma è il pubblico: gli italiani fanno sempre la differenza» ci ha detto Adam Clayton di fianco a Bono prima di salire sul palco. D'altronde i dieci brani che racchiudono The Joshua Tree sono il passepartout per la felicità di uno stadio. Da Where the streets have no name a Still haven't found what I'm looking for e With or without you. Dalla violentissima e dark Bullet the blue sky fino alla cupa ed evocativa Mothers of the disappeared. Questo è il nocciolo del concerto. La conferma che quel «brand», il suono rock degli anni '80, vive ancora di vita propria e riesce anche adesso ad accendere gli stadi alla faccia di qualsiasi nuova tendenza che, stagione dopo stagione, promette sfracelli e poi appassisce come una rosa a luglio. «Quando abbiamo scritto The Joshua Tree stavo leggendo A sangue freddo di Truman Capote e The executioner's song di Norman Mailer», ha detto tempo fa Bono parlando di Bullet the blue sky. Ma l'atmosfera del concerto è quella di una rimpatriata tra vecchi amici. Un po' è anche merito di Noel Gallagher, che ha aperto lo show con un brit rock nostalgico ma efficace e, soprattutto, suonato come si deve. Però a fare la differenza sono stati «quei» suoni. Quelli che hanno dato la maturità al rock.

Difatti i bis degli U2 iniziano con Miss Sarayevo (che qui diventa Miss Syria) e passano per Beautiful day, Elevation, Vertigo, Mysterious way, Ultraviolet, l'immensa One e l'inedito finale a sorpresa Little things che si diluisce tra le ovazioni del pubblico finchè le luci dell'Olimpico non si accendono per spegnere la festa.

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