Mina turca su Unicredit. A sette anni dalla crisi greca torna sulla finanza europea, e in particolare sulle banche, il rischio contagio. E ad accendere un faro sull'esposizione alla fragile economia di Ankara non sono solo i numeri il crollo delle Borse e dei titoli ma anche, secondo il Financial Times, la Bce, che sarebbe «preoccupata» per il possibile effetto domino. Indiscrezioni, non commentate dall'Eurotower, che sono state l'innesco del più classico dei venerdì neri, con Unicredit falcidiata da un -5% a Piazza Affari). L'istituto ha pagato caro il fatto che nel bilancio 2017 sono iscritte attività in lira turca per complessivi 18,2 miliardi tra attività, passività e derivati.
«Il rischio principale - spiega Claudia Segre, presidente Global Thinking Foundation sta nel probabile imminente downgrade del rating della Turchia e nell'alleanza suggellata con la banca Yapi Kredi», la quarta del Paese con 788 sportelli e 365 miliardi di lire turche di asset (circa 53 miliardi di euro), di cui l'istituto italiano possiede il 40,9%. Controllata che, secondo gli analisti di Goldman Sachs, «sarebbe quella messa peggio in termini di capitalizzazione rispetto agli altri grandi gruppi del Paese». Nel corso del primo semestre il contributo di Yapi Kredi al conto economico di Unicredit è stato di 183 milioni (+28% nel secondo trimestre a cambi costanti, ma -3,4% per effetto della svalutazione della lira turca). Si tratta di meno del 2% dei ricavi del gruppo. Unicredit, che ha anche una piccola esposizione in titoli di Stato di Ankara (circa 165 milioni), ha spiegato agli analisti che una svalutazione del 10% della lira turca «avrebbe un impatto di circa 2 punti base sull'indicatore patrimoniale Cet1». Una situazione delicata, dunque, che dovrà essere maneggiata con cura dall'ad Jean-Pierre Mustier visto che la società di piazza Gae Aulenti non ha intenzione di fare dietrofront. «Yapi Credi è una banca molto buona e il nostro investimento è di lungo termine», ha spiegato il cfo del gruppo, Mirko Bianchi, qualche giorno fa. Anche perché Yapi Kredi è valutata, a valore di libro, 2,5 miliardi, ma il valore attuale di mercato è di 1,1 miliardi. Unicredit non balla comunque da sola nella crisi turca. Alla fine del 2017, le banche italiane erano esposte per 16,8 miliardi di dollari. E non sono solo queste a fare affari con Erdogan.
Più in generale, la crisi turca sta mettendo a rischio un florido interscambio commerciale con l'Italia, lo scorso anno quinto partner di Ankara con 1.418 aziende coinvolte per un business di 19,8 miliardi di dollari (+11,1% sul 2016): 11,3 miliardi in esportazioni e 8,5 miliardi in importazioni. A tessere le fila molte big: Pirelli, da 50 anni presente nel Paese, che ha concentrato nello stabilimento di Izmit la produzione di due milioni di pneumatici industriali l'anno; Fca, che opera da decenni nello stabilimento di Bursa-Tofas (Instanbul) ed «è alle prese ricorda Segre con una difficile transizione manageriale» dopo aver registrato, già nel 2017, una frenata sul mercato auto turco del 4,5% a 722.759 unità. E ancora Leonardo, tramite Alenia Aermacchi, coinvolta nella produzione di 30 F-35 (con opzioni per altri 70 aerei).
Tanti, poi, i progetti italiani infrastrutturali nel Paese: come quelli di Salini Impregilo (due autostrade, un impianto idroelettrico, l'alta velocità) e Astaldi, che ha da poco realizzato il
terzo ponte sul Bosforo. E ancora Azimut, Cementir, Recordati, Reno de Medici. Tra le grandi non quotate Barilla, che ha rilevato negli anni 90 la pasta Filiz in Turchia, e Ferrero che ha sette stabilimenti di lavorazione.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.