Roma - «Tra il 1933 e il 1945 è stato coinvolto nelle persecuzioni intraprese dalla Germania nazista o dai suoi alleati?». Per anni gli italiani hanno riso dell'apparente ingenuità delle domande sul modulo d'ingresso negli Stati Uniti. Eppure c'è una logica nel severo scrutinio adottato dal Cbp, il Customs and border protection, le dogane americane. Così come c'è una logica nella domanda aggiunta da una settimana a questa parte al modulo on line per essere autorizzati a viaggiare negli Usa: «Qual è la vostra identità su internet?».
Agli italiani, così come gli abitanti di altri 38 Paesi, tra cui Regno Unito e Francia, per un viaggio di piacere negli Usa non serve un visto ma un'autorizzazione semplificata, l'Esta, «Electronic system for travel authorization». Si compila un modulo on line con le proprie informazioni personali e si riceve rapidamente un nulla osta valido per due anni. Salvo ovviamente che non si sia già catalogati come terroristi.
Alle informazioni richieste, da oggi si aggiunge anche la propria identità sui social network, in particolare Facebook, ma anche Instagram, Twitter, Linkedin e simili. Non viene chiesta la password, dunque le autorità americane avranno accesso, in teoria, solo alle informazioni pubbliche. Ma tanto basta per scandagliarci a fondo. E infatti la notizia di questo nuovo controllo è bastata a far scattare la protesta delle associazioni per la tutela dei diritti civili.
Noi europei ci teniamo alla privacy, almeno a parole, eppure con questa semplice informazione, Anis Amri, il terrorista del Tir di Berlino, non sarebbe mai potuto entrare negli Usa: aveva messo «like» su Facebook all'organizzazione terroristica Ansar Al Sharia. Sui social network, più o meno inconsapevolmente, ci costruiamo un'identità dettagliata, piena di accenni a informazioni personali che magari non ci sogneremmo mai di comunicare in pubblico, a voce. È un effetto psicologico curioso, ma ormai accertato: su Facebook pubblichiamo foto dei nostri figli, informazioni più o meno velate sulle nostre storie d'amicizia, odio e amore, le nostre idee politiche, i dettagli delle nostre ferie e dello shopping, i regali che facciamo e riceviamo, qualcuno addirittura i propri spostamenti con tanto di tracciatura gps o magari i guai di salute, che pure sono i dati considerati più sensibili dalle leggi sulla privacy, eppure noi li consegniamo spontaneamente a una rete di computer accessibile da chiunque in tutto il mondo, spesso senza nemmeno controllare se abbiamo scelto di condividere con chiunque queste informazioni o se abbiamo almeno frapposto lo scudo della privacy.
Ed ecco perché Facebook diventa sempre di più il nostro vero documento di identità, il più approfondito e completo mai messo in circolazione. Già da tempo è usato come curriculum, come scheda di presentazione a un nuovo amante, come metro di valutazione della nostra attendibilità per un prestito. Ora è anche un passaporto per l'America.
Proprio ieri il Garante della Privacy italiano ha bocciato una banca dati che da queste informazioni ricavava una specie di pagella sulla reputazione individuale. Dovremo essere sempre più attenti a cosa divulghiamo on line. Una fonte del Cbp conferma al Giornale che le informazioni potranno essere utilizzate per «identificare potenziali minacce». Saranno conservate per tre anni e, se serve, segnalate ad altre agenzie di sicurezza.
Per ora dichiarare l'identità on line è facoltativo. Ma il Cbp può decidere, senza fornire spiegazioni, di negare l'Esta, che equivale a un pessimo marchio di inaffidabilità. Vanno bene le goliardate su Facebook, ma meglio darsi una regolata.
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