Alla fine, Raffaele Cantone ha deciso di non poterne più: e così, pur di andarsene sbattendo la porta dall'Autorità anticorruzione, ha chiesto di tornare a fare il lavoro che faceva prima. Dal massimo della visibilità al minimo: perché dopo cinque anni trascorsi a incarnare la lotta alle tangenti, Cantone verrà rispedito al «massimario» della Cassazione, un ufficio che si occupa di estrapolare dalle sentenze i passaggi più significativi e inserirli negli archivi. La trincea, come dire, è un'altra cosa. Anche se, lasciando, quasi minaccia: «La magistratura vive una fase difficile, che mi impedisce di restare spettatore passivo».
Ci pensava, si dice, da tempo. Almeno dal giugno dell'anno scorso, quando nel suo discorso di insediamento il neopremier Giuseppe Conte aveva avuto parole non proprio benevole verso la sua Authority: «Dall'Anac non abbiamo i risultati che ci attendevamo, forse avevamo investito troppo», aveva detto il capo del Governo alla Camera. Cantone ci aveva letto una sorta di delegittimazione preventiva, figlia anche dell'etichetta di «renziano» che si porta, a torto o a ragione, cucita addosso dal giorno del suo insediamento nel 2014. Ormai sapeva di essere nel mirino, e che solo un miracolo avrebbe permesso il rinnovo del suo incarico nel 2020.
Il miracolo non è avvenuto: anzi, botta dopo botta, il Garante antimazzette ha maturato la certezza che la sua stagione volgesse al termine. Così ha iniziato a prepararsi a tornare in magistratura. Il primo obiettivo era indossare davvero la toga, andando a guidare una Procura: di terza fascia, non avendo alle spalle esperienze di uffici direttivi. Ha fatto domanda per le procure di Frosinone, Torre Annunziata e Perugia. Solo l'ultima è una procura importante, perché indaga sui reati che coinvolgono i magistrati di Roma. Ma con la bufera che ha investito il Csm e ha di fatto paralizzato le nomine, Cantone ha capito che il suo mandato sarebbe scaduto prima che arrivasse la risposta. E ieri ha scelto di rompere gli indugi, con un comunicato che spiega la decisione con il «manifestarsi di un diverso approccio culturale nei confronti dell'Anac e del suo ruolo».
È un eufemismo. Nell'ultimo anno Cantone ha incassato una serie di colpi sotto la cintura che andavano nella direzione opposta alla linea predicata dall'Anac. Il primo è stato il decreto sulla ricostruzione del ponte di Genova, con poteri in deroga a tutte le normative sugli appalti. Poi è arrivato lo scontro sul nuovo codice degli appalti. Poi lo «sbloccacantieri» che alza le soglie per gli affidamenti diretti degli appalti. Infine l'attribuzione ai commissari straordinari per le opere strategiche di poteri eccezionali. Cantone si è dovuto rendere conto che a non essere nelle corde del nuovo governo era la filosofia stessa dell'Anac: maggiori controlli, prevenzione, eccetera. Meglio, come gli ribattè il ministro Toninelli, fare in fretta le opere e sbattere poi in galera chi commette reati.
Cantone spiega il suo rientro in magistratura anche con la volontà di vivere dall'interno della categoria la fase drammatica aperta dallo scandalo del Csm. Sa di non essere amato dai colleghi, come tutti quelli che vanno a lavorare per il governo (e, nel suo caso, a guadagnare bene).
Ma di una cosa è fiero: nelle intercettazioni sul Csm, quando il renziano Luca Lotti tratta con gli esponenti dell'Anm il nome del nuovo procuratore di Perugia, l'unico nome che non viene fatto è il suo. «Evidentemente - ha confidato agli amici - tanto renziano poi non sono».
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