Anche a voler essere buoni, molto buoni, decisamente pii, c'è qualcosa che non torna nella storia dell'annunciato avvicendamento alla Repubblica, dove il 14 gennaio si aspetta con animo variegato l'arrivo di Mario Calabresi, attuale direttore della Stampa. A non veder l'ora, in verità, è solo Palazzo Chigi. Prevedendo tempi torridi al di là del riscaldamento globale, Matteo Renzi immagina di avere nel quotidiano di largo Fochetti il fortilizio necessario per superare la prova del fuoco. Nel campo di Repubblica, però, ha trovato baluardo non facile da abbattere nello statuario fondatore Eugenio Scalfari, poco incline a moti di simpatia per Renzi (ancor più per le sue condotte), e pure per il giovanotto scelto per dare una bella strigliata al campo della sinistra presidiato da Repubblica: appunto, Calabresi. Al punto che, nella consueta articolessa domenicale che Scalfari ha dedicato ieri («per una volta», sic) alla storia autocelebrativa del quotidiano, il Fondatore neppure lo cita. Così come non parla dell'avvicendamento con Mauro, che di quella storia indicherà il prosieguo e che è oramai prossimo. Questo nonostante nell'articolo siano citati 46 nomi più 9 principi cardine. Nel dettaglio: cinque editori (Mondadori, Caracciolo, Formenton, Olivetti, Mattei); 21 giornalisti (compreso il Protagonista); 28 politici di riferimento (di cui 4 dc: curiosamente De Gasperi accomunato a don Dossetti e, ahiahi, persino a Ciriaco De Mita ), 5 papi. Sbianchettati dalla mente, forse dal cuore, risultano in tre: l'attuale direttore, il prossimo, l'editore.L'ira di Giove Tonante non s'è placata, dunque. De Benedetti e Mauro l'hanno tenuto fuori dai giochi, Calabresi resta estraneo al brodo di coltura di Repubblica. Una sensazione maturata da tempo, in Scalfari, che ha avuto modo di vedere (e capire) quanto fosse probabilmente troppo vicino ad altri ambienti, da lui frequentati sempre con molta diffidenza. Ambienti assai dissimili tra loro, fra l'altro, quelli di Calabresi: molto apparato dello Stato, grande amicizia con l'ex presidente Cossiga, simpatia (magari ricambiata) per Berlusconi. E poteri forti o fortissimi: dal Dini quando era ancora il Lambertow beneamato da Washington a Marchionne, all'onnisciente Paolo Mieli. È stato proprio quest'ultimo a officiare, in televisione dalla Gruber, la settimana scorsa, la triste finzione scenica di una pace che non è mai stata siglata. Dopo una cena con De Benedetti, dall'atmosfera tra il curialesco e il «ce semo capiti», Scalfari è dovuto andare in tivù avendo solo la possibilità di ricordare il proprio disappunto per non essere stato avvisato per tempo (nella realtà, pare che avesse persino cominciato a preparare gli scatoloni, dicono a largo Fochetti). Ha quindi reso nota la propria retromarcia dal proposito di non scrivere più l'articolo della domenica («Sono troppo stanco», la prima versione ufficiale; «Mi hanno convinto che non potevo farlo», la seconda).
Infine, ha dovuto accettare obtorto collo che «il nome di Calabresi l'avrei fatto io, se De Benedetti avesse avuto il garbo di chiedermelo» (ma pare che la sua rosa sarebbe stata ben più corposa, comprendendo ben dodici nomi).Ecco quindi che la vendetta scalfariana è ancora calda, e l'articolo di ieri rappresenta solo un avvertimento: questa è la nostra storia, questa la Costituzione di Repubblica, guai a chi ce li tocca.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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