"Ma la vera umanità è nelle cure palliative"

Il portavoce di Scienza e Vita, Maurizio Calipari: le terapie per chi soffre non sono diffuse, la legge è inapplicata

"Ma la vera umanità è nelle cure palliative"

La decisione del Comitato per la bioetica «non apre al suicidio assistito». «Eutanasia e suicidio assistito si differenziano solamente per la modalità della procedura di esecuzione, ma sono entrambi moralmente inaccettabili. Come rifiutiamo in pieno l'eutanasia in quanto lesiva della vita umana, allo stesso modo non concepiamo nemmeno la possibilità del suicidio assistito, ancor meno se legalizzata dallo Stato».

È chiara la posizione dell'Associazione Scienza e Vita, che collabora strettamente con la Conferenza episcopale italiana e dunque molto vicina al pensiero della chiesa italiana. A parlare della decisione del Comitato nazionale per la bioetica, secondo cui il suicidio assistito è da considerarsi diverso dall'eutanasia, è Maurizio Calipari, portavoce nazionale di Scienza e Vita.

Come commenta il documento del Comitato per la bioetica?

«La prima cosa che noto è che lascia trasparire la spaccatura all'interno del comitato stesso, con i membri divisi in due gruppi e posizioni diametralmente opposte. Sui contenuti, il documento si limita a registrare posizioni diverse e conclude con raccomandazioni molto generiche che non danno soluzione al problema».

Nessuna apertura, dunque, al suicidio assistito?

«Non mi pare affatto. Il suicidio assistito differisce dall'eutanasia esclusivamente per la procedura di esecuzione: nell'eutanasia è un'altra persona che mette in moto il meccanismo di morte, nel suicidio assistito è la persona stessa che chiede ad un'altra di aiutarla nell'esecuzione, ma poi è essa stessa ad azionare il meccanismo uccisivo».

Per Scienza e Vita, dunque, non c'è alcuna differenza?

«Non c'è alcuna distinzione etica e morale; l'intenzione è la stessa. Continuiamo a considerare sia l'eutanasia che il suicidio assistito vie sbagliate e offensive della vita umana, perché la feriscono e non ne riconoscono il valore intrinseco».

Cosa chiedete alla legge italiana?

«C'è molto da fare per rendere effettiva l'assistenza a chi sta male e a chi si avvicina al fine vita con la vera diffusione e messa a disposizione delle cure palliative. Nonostante la legge 38 preveda tutto su questo tema, andrebbero aumentati gli strumenti di prossimità a chi è in sofferenza grave. Inoltre la Corte costituzionale sollecita il legislatore a trovare una soluzione normativa che preveda casi come quello di Dj Fabo. A mio avviso, l'unica via percorribile potrebbe essere prevedere casi isolati, ben definiti, con determinate caratteristiche, dove l'applicazione dell'articolo 580 del codice penale possa essere rivista nel senso di una diminuzione della pena per chi aiuta al suicidio. Per il resto, non serve certo peggiorare l'attuale quadro legislativo».

Perché ritenete così pericoloso «aprire» al suicidio assistito?

«Nessuno mette in discussione che l'autonomia del paziente rappresenti un valore anch'essa, ma se va ad intaccare il dono della vita, anche questa autonomia deve avere un vincolo e un limite, altrimenti diventa autodistruttiva. E la nostra società, se accetta quella logica, prende una strada che non mette più al primo posto la solidarietà con chi soffre e mette in discussione che il valore portante sia la tutela di ciascuna vita umana. Significherebbe aprire scenari inquietanti.

Cosa accadrebbe, se una persona dovesse soffrire per ragioni diverse dalla malattia, e volesse anch'essa ricorrere all'eutanasia? Si aprirebbe un varco davvero pericoloso, un piano inclinato dove il rischio è di non fermarsi più».

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