Politica

Viaggio tra i frondisti Pd terrorizzati di finire ai giardinetti come Fini

Chitiani, mineani, bersaniani, civatiani fanno finta di ruggire come leoni anche se assomigliano a conigli. Due le possibilità: appoggiare il premier o perdere lo scranno

Il viceministro dell'Economia, Stefano Fassina
Il viceministro dell'Economia, Stefano Fassina

La fronda è quella categoria politica per cui si fa opposizione interna al proprio leader fin quando non inizia a scottare la poltrona.

Prendete i frondisti del Pd, quelli che ieri hanno firmato 7-emendamenti-7 alla legge delega sulla riforma del lavoro. Trentacinque carissimi nemici di Matteo Renzi al fixing di ieri, dalla A di Albano (Donatella) alla Z di Zanoni (Magda Angela). Deputati e senatori chitiani, mineani, bersaniani, civatiani.

Ora, se questo ruggito dell'opposizione interna a SuperMatteo fosse quello di un leone affamato ci sarebbe da sudare freddo. Ma il sospetto è che, mutuando il titolo di una fortunata trasmissione radiofonica, si tratti del ruggito di un coniglio. I numeri, infatti, allo stato attuale costringerebbero il governo a: 1) darla vinta agli antirenziani del Pd; oppure 2) appoggiarsi sulla stampella di Forza Italia per mettere sul nastro trasportatore il cosiddetto Jobs Act senza ritoccare troppo quella modifica dell'articolo 18 che, gira gira, rappresenta il succo di tutto.

Finirebbe male in ogni caso: se si verificasse la prima ipotesi, stravolgendo la riforma più importante e urgente, Renzi perderebbe la faccia e l'Ncd. Se Renzi non riuscisse a convincere Berlusconi, tutti a casa (e alle urne). Ma anche se - ipotesi due - le larghe alleanze funzionassero, i 35 aventiniani democratici non potrebbero non trarre le conseguenze uscendo dal partito. E siamo sicuri che questi kamikaze della politica siano in grado di ultimare la liturgia del loro harakiri ?

C'è sempre lui sullo sfondo di tutto questo, il padre di tutte le spaccature interne degli ultimi anni: Gianfranco Fini. Autocacciatosi dal Pdl nel 2010 con l'ambizione di far cadere il governo Berlusconi e all'uopo attrezzatosi con un manipolo di fedelissimi (43 parlamentari inizialmente, qualcuno in più degli antirenziani del Pd), asperso a secchiate a sinistra da quel profumo di santità poi rivelatosi un dozzinale deospray da discount e, infine, naufragato meno di tre anni dopo con Futuro&Libertà (un nome che se la batte con il Titanic tra i brand meno lungimiranti della storia) alla voce varie-ed-eventuali nelle elezioni politiche 2013, quelle che trasformarono un seggio da presidente della Camera in una panchina da pensionato.

Ecco: finire come Fini, al di là del piacere enigmistico della frase, è il vero spettro della politica italiana. Quello che agita i sonni di chiunque si abbandoni all'avventurismo senza leadership, di chiunque si metta di traverso dall'interno al proprio leader pensando di avere in mano blue chips (e invece sono bond argentini). Non a caso finora tutti i dem non di rito renziano hanno sparato a salve guardandosi bene dallo svuotare i cassetti di largo del Nazareno.

Non l'ha fatto Rosy Bindi, che ha più volte puncicato Renzi, prendendosela anche con l'avvenenza delle sue girls («Penso che le donne ministro siano state scelte anche perché erano giovani e belle, non solo perché erano brave») ma sta ben comoda sulla poltrona di presidente della Commissione parlamentare antimafia in quota governativa. Non l'ha fatto Stefano Fassina, non-renziano della prima ora, che ogni tanto ricorda a Matteo che «non mantiene le promesse» e che «fa le caricature di chi non la pensa come lui», ma sta sempre rimpannucciato sotto il grande ombrello del partito del 40 per cento. Non l'ha fatto nemmeno Vannino Chiti, il Robespierre democratico che però poi fa le fusa: «L'ipotesi di una scissione è inesistente e non è un nostro obiettivo: vogliamo un Pd che consideri il pluralismo interno come una ricchezza».

Renzi si informi se a Fini i cioccolatini piacciono al latte o fondente.

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