Erano arrivati. Era il momento in cui ci si gira verso le porte in attesa dell'apertura. Mascherine, zaini sulle spalle e schiena dritta: pronti a scendere. Ma non arriva nessun centimetro di contatto. La cabina tre non tocca la banchina. Si blocca, torna indietro e si impenna. Inizia il suo brevissimo viaggio a ritroso, sparata a tutta velocità, in esilio da qualsiasi geografia e tragitto. Come se stesse prendendo la mira oltre il bersaglio. Urta il pilone, il cavo si stacca e la cabina tre precipita nel vuoto. Con tutti quanti dentro: quindici passeggeri, quattordici morti, tranne Eitan, il bimbo israeliano rimasto orfano e senza fratello. Ce lo siamo sempre immaginati così.
Ma vederlo così è tutta un'altra storia. Buca il vuoto e il cielo le si arriccia attorno, come i lembi di un fazzoletto che si chiudono con un peso al centro. Si sente la tensione che precede l'irreparabile. Perché conosciamo già la fine e perché in quella manciata di secondi l'aria si tende di irreale. E poi scricchiola di tragedia. Ce lo siamo sempre immaginati così. Ma vederlo così è tutta un'altra storia.
Ieri è stato chiaro davvero cos'è successo il 23 maggio scorso alla funivia del Mottarone. Le immagini raccolte dalle telecamere di videosorveglianza sono andate in onda al Tg3 e sono subito rimbalzate sui siti e sulle altre tv. Non avrebbero dovuto essere rese pubbliche, ma sono «uscite». Non le avevano mai viste neppure i parenti delle vittime. Perché fanno sussultare e svuotano. Il Procuratore della Repubblica, Olimpia Bossi, ieri ha fatto un comunicato stampa, per spiegare che la pubblicazione delle immagini è vietata, trattandosi di atti relativi a un procedimento in fase di indagini preliminari. «Ma ancor più del dato normativo» diceva la Bossi «mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone, per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti, e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità». Anche la Rai si è «spaccata» sulla decisione del Tg3 di divulgare le immagini. C'è chi ha parlato di «scelta macabra» e lo stesso Marcello Foa, presidente della Rai, si è detto «toccato dalle immagini» e ha spiegato che il servizio pubblico avrebbe dovuto tener conto «dell'impatto emotivo» di quel filmato. Mentre dalla redazione della Terza Rete giustificavano la diffusione del video spiegando che «aggiunge qualcosa in più alla comprensione della tragedia». Opportunità e sensibilità, insomma. Ognuno le proprie.
Ma intanto stringe lo stomaco quella cabina che cambia rotta. E quell'impennata, che deve averli scaraventati tutti gli uni addosso agli altri, per poi partire all'impazzata verso lo schianto. Non si sente nulla, ma sentiamo lo stesso le grida fino al terrore che va a comprimere i polmoni e a renderli afoni. E noi non siamo quelle madri, quei padri, quei fratelli...
Erano arrivati. Praticamente arrivati. A guardarli oggi, sapendo cosa c'è dopo, viene da tendere le mani da quella banchina mai toccata per afferrarli, agganciarli in qualche modo, tenerli. «Tenere» è il verbo che salva. Sempre. Viene voglia di sdraiarsi sul cemento e di agganciare in qualche maniera disperata quella bara di metallo prima che si lanci a tutta velocità. A guardarli oggi, a fare senso più della morte, è la vita.
Vedere la vita che c'era fino a pochi istanti prima. L'uomo con lo zaino sulle spalle e la mascherina sulla bocca che si volta verso l'uscita per scendere. È quello lo sgomento. Lo sgomento è la vita. A far senso è la vita. Vederla ignara, stagliata sul destino.
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