Coronavirus

"È un virus da decifrare. I test sul siero funzionano ma ora servono a poco"

Il primario del San Matteo: "Anche i tamponi hanno dei limiti. Esami fuori dagli ospedali"

"È un virus da decifrare. I test sul siero funzionano ma ora servono a poco"

Mario Mondelli, professore a Pavia e direttore di Malattie infettive 2 del San Matteo, la situazione dell'ospedale?

«Molto migliorata. Al pronto soccorso per la prima volta il numero di pazienti Covid è sceso sotto quello dei non-Covid. Segnale importante. Gli ospedali dovranno essere riaperti, gestendo la coesistenza. È delicato».

Ma la promiscuità è stata sottovalutata all'inizio?

«Molti pensavano fosse un problema solo della Cina, dove non conosciamo la reale portata, probabilmente superiore al dichiarato. Si è pensato potesse essere circoscritto come la Sars e non trasmissibile senza sintomi».

I test sierologici di Pavia?

«Sono arrivate molte proposte. La nostra virologia ha validato uno dei migliori, il problema è che si basa sugli anticorpi anti-spike, che si attaccano ai chiodi che il virus usa per attaccarsi, ma non è detto che tutti li abbiano sviluppati. Ed è probabile che non rimangano a lungo. Ma ci sono altri anticorpi, che reagiscono contro una componente dentro il virus e più spesso presenti nelle persone infettate, gli anticorpi anti nucleo proteina. Dovremmo affiancare un test che misuri questo».

A che servono questi test?

«Dai dati sulle zone rosse sappiamo che non è un buon modo per valutare quanto il virus è circolato né per valutare chi è protetto. Sappiano solo che i convalescenti hanno un buon titolo di questo anticorpi. A che serve lo vedremo sul campo. Certo non è un patentino da rilasciare a qualcuno che torna alla vita normale. C'è una zona grigia in questo virus. Vogliamo incorniciarlo in ciò che è noto, ma è nuovo, lo conosciamo da due mesi, il morbillo da secoli».

Lei ritiene che i contagiati possano essere dieci volte i dati. I tamponi sono decisivi?

«Direi 2 milioni di persone oggi in Italia. I dati sono la punta dell'iceberg. Anche il tampone ha limiti. Nel 15% dei casi di negativi il virus viene identificato nel broncolavaggio. Il morbillo è molto più immunogenico. Dopo decine di anni sono presenti ancora gli anticorpi. Di questo non siamo sicuri. Il tampone inoltre identifica il genoma, ma non vuol dire che sia infettivo. Servirebbero sul campo dei test rapidi ed efficaci e negli ospedali i test di riferimento».

Ci sono stati errori nella risposta in Lombardia?

«La mia interpretazione è diversa. Facile dire: è mancato il sistema territoriale. Ma Piacenza è stata devastata tanto quanto Cremona. Forse è mancata una risposta tempestiva in Val Seriana, ma la prima zona rossa è stata gestita bene e gli ospedali si sono trasformati reggendo uno tsunami nel migliore dei modi».

La diversa organizzazione o strategia ha inciso? Si parla molto del Veneto.

«Non credo sia questo. Il Veneto è partito da piccoli numeri. Il Lodigiano da dati molto elevati. La densità di popolazione ha inciso. Il sud è stato risparmiato per fortuna, perché magari certe strutture non avrebbero potuto reggere. Ora si critica l'ospedale in Fiera, ma io credo sia stato molto saggio farlo, anche se ora ospita pochi pazienti. Abbiamo una struttura pronta. Mi aspetto altre pandemie.

Strutture simili servono a gestire le emergenze, magari senza tagli ai medici».

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