Chi lascia Roma perde la poltrona. Profetiche o beffarde che suonino alle orecchie del premier Gentiloni, le parole dell'infantile calembour sembrano porre la parola fine all'ennesimo governo kamikaze di un Pd dilaniato, incapace di trovare equilibri stabili al proprio interno.
Dicono che il premier fosse informato passo passo e serenamente d'accordo con Renzi, nella forzatura che ha portato a staccargli la spina proprio mentre a Taormina chiudeva un tormentato G7 di mediazione. Ma non è detto, e non sono esclusi colpi di scena, visto che il casus belli trovato - la reintroduzione dei voucher cancellati da un decreto due mesi fa per paura del referendum della Cgil (3,3 milioni di firme raccolte) - oltre a investire direttamente il Pd, potrebbe vedere il coinvolgimento di Quirinale e Consulta. Eppure non ci voleva la zingara per capire che, messo in moto il piano inclinato che porta verso elezioni ottobrine, qualsiasi pretesto fosse buono per arrivarci. Meglio ancora una questione come i voucher invisi alla sinistra, spartiacque tra le due identità di un Pd furbetto che aspira a diventare perno centrale del sistema.
La farsa di governo andava in onda di buon mattino, con la ministra Finocchiaro a (sper)giurare che «i voucher sono stati cancellati da un decreto-legge di questo governo e non torneranno, chi sostiene il contrario, non dice la verità». A poche ore dall'annuncio, nella commissione Bilancio che sta esaminando la manovrina accadeva di tutto. Mdp sentiva puzza di bruciato. I toni tra ex colleghi di partito si accendevano d'acchito. Troppo simili i nuovi voucher a quelli vecchi. «Hanno cambiato solo il nome», attaccava il capogruppo Arturo Scotto annunciando il voto contrario. «Volete il voto, imbroglioni, furbi, volete lo scontro con il sindacato e la sinistra, sabotate la legislatura, vi arrampicate sugli specchi», le accuse degli scissionisti, mentre la Cgil gridava al «vulnus democratico» chiedendo l'intervento di Mattarella. L'emendamento sui voucher intanto passava con 19 sì, 6 contrari e l'uscita a sorpresa dall'aula della componente orlandiana del Pd (Cenni, Dell'Aringa e Misiani). Damiano e un Cuperlo insolitamente furente lamentavano un «grave errore e uno sgarbo al buon senso». Il capogruppo Pd Rosato scaricava su Mdp le colpe di «destabilizzare questa maggioranza» fin dall'inizio, facendo però trapelare una chiara volontà di chiudere i conti a sinistra e annientare la pericolosa concorrenza. Frattura interna acuita dalla decisione di Forza Italia, Lega e Fdi di votare un provvedimento da sempre difeso e sostenuto.
«La sinistra si sta dilaniando su un insanabile conflitto ideologico e si sente l'odore della crisi di governo, una cosa pazzesca», tirava le somme il capogruppo forzista Brunetta. Cadevano i veli di una maggioranza «posticcia», come evidenziava la Lega. Al bersaniano Speranza toccava annunciare le campane a morto: «Se mettono la fiducia, non la voteremo». Riposi in pace (o sereno, a scelta).
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