Quella (vuota) retorica del dopo attentato

Quella (vuota) retorica del dopo attentato

A Tel Aviv, nel settembre 1982 Oriana Fallaci intervistava il ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon su una guerra appena terminata. Lo accusava di reagire alle provocazioni dell'Olp con atti militari e una forza sproporzionata rispetto a quella del suo nemico. Il generale rispose: «Qual è la provocazione precisa quando si tratta degli ebrei? Un ebreo assassinato nel campo o per strada è una provocazione precisa, sufficiente? Oppure ce ne vogliono due? O tre, o cinque o dieci? Se un ebreo perde le gambe in un attentato, no. Gli occhi invece bastano?». Dopo ogni atto terroristico che miete vittime inermi in Europa si riattiva una retorica che ha lo scopo di non accendere gli animi di chi, per queste morti, esigerebbe una risposta più dura. L'abbiamo sentita dopo l'assassinio di Fabrizia Di Lorenzo a Berlino, dopo quello di Valeria Solesin a Parigi, quando abbiamo pianto Michele Santomenna deceduto a soli nove anni nel Burkina Faso. Si ricorda che la guerra jihadista alle democrazie è un'impresa minoritaria e disperata che non destabilizzerà o provocherà danni di grande portata in nessun paese dell'Unione europea. Si sottolinea come il numero dei morti, sempre contenuto e perciò accettabile non giustificherebbe una contrapposizione tra buoni e cattivi, un muro di difesa invalicabile per metterci a riparo dal pericoloso nemico. Dopo ogni attentato ci spiegano che dovremmo sentirci al sicuro pensando al lavoro dei corpi armati e delle agenzie d'intelligence, che statisticamente la possibilità di trovarci nel posto sbagliato al momento sbagliato è esigua, che non si cela un nemico dietro ogni barba e ogni velo. Le nostre capacità cognitive dovrebbero sopprimere la nostra emotività, quella con cui ci immedesimiamo e ci stringiamo nel dolore dei genitori di Fabrizia, di Valeria o del piccolo Michele. Per conservare la nostra libertà di andare in vacanza a Parigi o a Berlino dovremmo considerare le vittime come un danno collaterale di poco conto.

Quanto conta la vita di Valeria, quella di Fabrizia e del piccolo Michele? Quanti ne dovranno morire prima di mettere in campo una difesa efficace? Per non temere per noi stessi siamo invitati ad utilizzare la logica del «mors tua vita mea» e a pensare all'altro come a un avversario in una competizione che, mettendo in gioco la sopravvivenza, escluda l'empatia, il senso di appartenenza e di protezione e la nostra umanità, per cui a ogni individuo attribuiamo un valore assoluto e una dignità che non si può sacrificare in nome di una analisi storico politica che elude il diritto alla vita dei nostri simili.

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