«Politically correct» Così l’imbecillità è salita in cattedra

Caro Granzotto, ma sa che lei ha sollevato il coperchio del vaso di Pandora? Anche perché le soluzioni cosiddette «politicamente corrette» per sostituire le espressioni che si avvalgono del colore nero o che peccano di maschilismo o altro nefando sentimento, rischiano di far passare, come si dice, dalla padella alla brace. Prenda, per esempio, «secondo al comando» invece che «right-hand man». «Secondo» presuppone un «primo», un «terzo» e, alla fin fine, anche un «ultimo»; presuppone, cioè, una società fondata sulla gerarchia, il che cozza con la «égalité», grido di battaglia della intoccabile rivoluzione francese. E «comando» presuppone un elemento di autorità che mai e poi mai i sinceri democratici potranno avallare. Come ben comprende, potremmo continuare all’infinito. Bisogna però ammettere che noi schifosi razzisti ce la siamo cercata: a bella posta abbiamo dato valenza negativa alla pecora nera e positiva alla mosca bianca; epperò, anche quel sincero democratico d’un Veltroni come ti andò a chiamare la sua «notte»? Notte bianca, la chiamò; né aveva scelta, visto che «era una notte nera e tempestosa» è l’incipit d’ogni romanzo del terrore che si rispetti. Anziché cambiare l’intero vocabolario, io una soluzione al problema ce l’avrei, anzi ne ho due, e consistono entrambe nel cambiare solo il nome della specie protetta argomento del contendere. Potremmo chiamarli «camidi», parola che ha il doppio pregio di far contento Noè e di rimanere misteriosa; e lei sa quanta fortuna hanno le parole misteriose, soprattutto se non significano nulla (tipo: condiviso, sostenibile, etc.). Oppure potremmo (ri)chiamarli «negri», termine che fu misteriosamente cancellato e sostituito da quel «nero» che, ove problema non c’era, ha creato l’inconveniente di cui lei ci ha riferito. Va da sé che io opterei per la seconda soluzione, anche perché sarebbe il cavallo di Troia per far (ri)chiamare i ciechi, «ciechi»; i sordi, «sordi»; i netturbini, «netturbini»; etc., etc. Che ne pensa?

Eh, caro professore, ci metterei la firma! Rottamare quella «sorta di Lourdes linguistica» del politicamente corretto dove, per dirla con Robert Hughes, autore del prezioso «La cultura del piagnisteo», «il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo»: ma ci pensa che bello? Ma ci pensa che pacchia? Non passa luna ch’io non mi vada a rileggere la voce «Nègre» che compare, giù il cappello, nell’Encyclopédie di Diderot e di d’Alambert sempre chiedendomi: se loro, luce degli occhi dell’Illuminismo, hanno scritto «nègre» (con quel che segue, e orpo se ne segue) perché noi che dell’Illuminismo siamo figli e figliastri, dobbiamo dire «noir»? Quando il mensile dei padri Comboniani, dicesi Comboniani, si chiama «Nigrizia» e non «Nerizia»? Quando i Negritos delle Filippine si chiamano Negritos e non Neritos? E «The nigger of the Narcissus» di Conrad seguita a chiamarsi così e non «The colorated of the Narcissus»? E poi, passi per negro. Ma indiani? Lo sa, caro Battaglia, che ho udito con le mie orecchie una giornalista molto nota, molto supponente e molto, molto «sinceramente democratica» dire in tivvù, parlando di «Ombre rosse»: «Fra i pezzi cult del cinema c’è la scena dell’attacco alla diligenza dei nativi americani». Così disse: nativi americani. Ma si può essere più fessi? Ma si può sbracare intellettualmente fino a quel punto? Mala tempora currunt, caro professore e seguiteranno a correre: la mia amara impressione è che indietro, cioè verso il buon senso, non si torna.

Quando si arriva a dire «meticcio» di un cagnolino privo dei richiesti quarti di nobiltà (e dunque un bastardino) non c’è più niente da fare. La vedo nera e magari anche negra, caro Battaglia. Siamo a questo: non solo l’imbecillità ha diritto di parola, ma si mette anche in cattedra e detta le regole.

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