Pompadour, l’arte di piacere

Pompadour, l’arte di piacere

Un dipinto importante aveva nel Settecento la funzione di grancassa mediatica. Come oggi la comparsata ai salotti dell’etere di Costanzo o di Vespa può valere la consacrazione per uno scrittore, così nella Francia dell’assolutismo, «esserci», negli oli di un ritrattista come Boucher o nei pastelli magici di Maurice Quentin de La Tour, poteva valere per un uomo di penna la differenza tra gli altari e la polvere. A patto che il testimonial fosse d’eccezione.
E quando a bucare la tela era la seduzione fatta donna, Madame de Pompadour, nella taffetà «alla spagnola» color luna, o nella divisa di corte ad arabeschi blu e oro, con il contorno di fiocchi e petali di quella tinta rosa che dalla Marchesa più influente del regno prese il nome, la via della celebrità era spianata. Evelyne Lever, brillante biografa, ci guida a leggere l’iconografia dell’epoca nel suo Madame de Pompadour, documentato come un diario di bordo, variopinto come un romanzo di passioni e d’avventura, pratico come un prontuario della scalata ai vertici, per una ragazza dotata, ambiziosa e creativa.
Tale era la sua eroina, nata medio-borghese, Jeanne-Annette Poisson (poissonades, pasquinate maleodoranti come pesci al mercato, erano le strofette volgari scagliate a suo danno da poetastri sul libro paga di ministri astiosi) che seppe incoronarsi d’un’aureola abbagliante, al punto da oscurare regina e principi, sul predellino del trono più prestigioso del mondo, e tra le lenzuola del suo monarca. Nel 1755, La Tour presentò il suo storico ritratto, oggi al Louvre. La bella era nella maturità dei trentacinque anni: da un lustro non era più che l’«amica necessaria» di Luigi XV. Si erano ormai sopiti gli ardori dell’estate del ’45 quando, complici le partite di caccia nella foresta di Sénart, vicina a Etiolle di cui Jeanne-Annette era divenuta castellana per matrimonio di convenienza, il Borbone sciupafemmine («ci si sentiva spinti ad amarlo lì per lì...», parola di Giacomo Casanova) l’aveva eletta dama del cuore ufficiale.
L’aveva perfino insediata a Versailles, tra l’incredulità di una corte schizzinosa (in quell’empireo si entrava solo con sangue blu secolare) e le frecciate dell’aristocratico d’Argenson, che quando era in buona la definiva «amante bene ammaestrata, strumento di funesti piani», ma a denti stretti la infangava come «odalisca addestrata, sultana favorita». Reggevano però integre l’autorità e l’influenza dell’ex amante, affezionata al suo principe azzurro, ma soprattutto al potere, installata a Parigi nel palazzo che sarebbe divenuto l’Eliseo dei Presidenti.
Alle dritte della Signora, il re dava maggior credito che a quelle del Consiglio, in diplomazia, in economia, in politica e perfino in questioni di guerra. Nel quadro di La Tour, la donna è circondata dalla crema della letteratura. In costa ai volumi pregiati si leggono i titoli: Storia naturale di Buffon, Lo spirito delle Leggi di Montesquieu, la tragicommedia pastorale del Guarino, Il pastor fido, monumento del barocchismo poetico e, a sorpresa, l’Enriade, poema epico in lode di Enrico IV, del bifronte Voltaire, cortigiano riottoso per eccesso di genio, accanto al quarto tomo dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, alfieri di quell’illuminismo che la Pompadour proteggeva, ma che era sospetto al re, non a torto diffidente verso i filosofi che dell’indipendenza e dell’autonomia intellettuale si facevano un vanto, e plasmavano il movimento d’opinione, la cultura che in pochi decenni avrebbero disgregato l’antico regime.
Quali gli ingredienti di un fascino così strepitoso? Raccontandone la breve vita (Madame morì poco più che quarantenne, per debolezza polmonare cronica), la Lever illustra le tappe di una carriera. Aveva studiato dalle Orsoline. Si era perfezionata in canto, danza e recitazione, tanto da calcare scene prestigiose. Aveva coltivato arte e gusto, giungendo a valorizzare le manifatture di Sèvres, e a dilettarsi, lei stessa, di scalpello e bulino. Collezionava libri, e amicizie tra gli spiriti brillanti.

Ma tutto questo non sarebbe bastato, senza la sua dote più umana e schietta: l’attitudine a piacere, quella naturalezza sensuale che rapì un re, sorprendendolo con le risate e le lacrime, assenti dai volti dei cortigiani d’ordinanza, fatti di grigia pietra dall’etichetta ipocrita di Versailles.

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