Si chiama Ubique vacuum: racconti dalla città, la mostra di Mario Ferrante ospitata nel Refettorio Quattrocentesco di Palazzo Venezia fino al 7 ottobre. 36 oli su tela, che hanno per tema il popolo della notte, costituito soprattutto dai giovani che sincontrano nelle città, territorio fisico del contemporaneo, che a cavallo delle moto svettano lungo le tangenziali per raggiungere i luoghi di aggregazione e di identità. Mario Ferrante, nato a Roma nel 57, ama molto le «macumbeire» e il Brasile dove ha vissuto molti anni e di quella esperienza porta i segni nella sua pittura che, pur avendo una matrice classica, vive nel dinamismo e nel colore. «Un artista - dice il professor Claudio Strinati - che agisce sempre e soltanto sotto limpulso di un forte stato emotivo e quello vuole trasferire con la maggiore immediatezza possibile sullo spazio della tela».
Liceo artistico, studi di anatomia, padronanza delle tecniche del ritratto, desiderio di avvicinarsi ai maestri, Ferrante raggiunge la notorietà grazie allAlitalia che negli anni Ottanta presenta nelle sale Vip dei grandi aeroporti internazionali mostre di artisti affermati ed emergenti.
E cambia registro, non più velature e terre, ma la scoperta dei gialli, dei blu, dei rossi e niente pennelli, ma solo spatole. Che non danno sfumature, ma graffiature, facendo emergere le imprimiture dellolio sulla tela. Una tela bianca impressa di giallo sulla quale il pittore disegna con linchiostro di china, «che a differenza del carboncino non permette ripensamenti, perché il tratto deve essere gestuale, istintivo. È più importante suggerire che dire», spiega il pittore. E su quel disegno a china passa il colore con la spatola.
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