Porto Venere rischiò di saltare in aria

La serata era tersa e limpida, sul mare increspato soffiava un calmo vento di maestrale, nel porticciolo alcuni pescatori rassettavano le reti e i gozzi stavano per essere ormeggiati. La guerra, in quella mite giornata, pareva lontana, se ne avvertivano appena le grida ovattate. Ma l’ansimare di motori che giravano al minimo rompeva la calma della sera e dalla curva della Casetta in Porto Venere apparvero due motociclette Guzzi di colore azzurro che precedevano un plotone di soldati tedeschi. Era l’11 settembre del 1943 e, da pochi giorni, era stato firmato l’armistizio con gli alleati. Un graduato tedesco disponeva che venissero chiamati alcuni camerati iscritti al Partito nazionale fascista e gli ordinava di organizzare il traghettamento delle truppe all’isola Palmaria. Subito si posero all’opera con le loro barche, ma erano in pochi, i soldati tedeschi non davano alcun aiuto e l’operazione andava a rilento. Nel timore di essere sorpreso dal buio l’ufficiale tedesco responsabile dell’evacuazione ordinava ai subalterni di costringere tutti quelli che si trovavano nel porticciolo con le loro barche a caricare i soldati traghettati al Terizzo, anche, se necessario, sotto la minaccia delle armi. Più tardi, completato il trasporto, nella calata scendeva il silenzio della sera.
In pochi giorni le truppe tedesche consolidavano le loro posizioni strategiche sia nel paese che alla Palmaria. Occupavano la Chiesa di San Pietro, il Castelletto attiguo, la Casetta, il Palazzo del Comune e la Caserma dei Carabinieri, mentre il comando della «Kriesmarine Arsenal» prendeva alloggio nei locali e nelle stanze della Locanda San Pietro. La macchina organizzativa si metteva in moto ed una ditta tedesca, la «Tod», iniziava a costruire opere di fortificazione e a fornire servizi, anche col reclutamento di mano d’opera di abitanti del paese.
All’isola Palmaria, nei pressi di Punta Scuola, veniva montata una batteria contraerea chiama «Albini», distrutta nel 1945 da una granata tirata dal fronte alleato, bloccato nei pressi di Massa, che colpiva il deposito munizioni. Quella sera, sull’imbrunire, dal paese videro un forte bagliore rossastro a forma tondeggiante, a guisa di un sole sorgente, che si spense in pochi minuti.
Nell’estate del 1944 anche Porto Venere veniva dotata di difese anti sbarco, la «Tod» costruiva un muro di cemento armato, alto circa due metri e largo uno, che sbarrava l’accesso alla Calata che veniva sempre pattugliata dai soldati tedeschi con l’ausilio di quelli italiani della Repubblica di Salò.
Nella parte sovrastante la «Grotta Byron» venivano posate delle mine antiuomo e nella piazza antistante la Chiesa di San Pietro, usando e ampliando i locali del diurno seminterrato, furono creati dei camminamenti che terminavano con torrette per l’alloggiamento di mitragliatrici e, nella stessa piazza, veniva costruita una postazione dotata di un cannone da 76 mm., con apertura sul canale della Palmaria.
In una mattina della primavera del 1944, ecco sopraggiungere alcuni autocarri carichi di militari tedeschi i quali andavano a posizionarsi nella Calata cominciando con picconi e mazze a spaccare il selciato di lastre di arenaria, ma, dopo alcune ore di lavoro, constatando che erano state fatte soltanto due buche, decidevano di usare la dinamite. Verso mezzogiorno, con l’ausilio di un megafono, un soldato avvertiva gli abitanti di lasciare le finestre aperte e a rifugiarsi nei ricoveri antiaerei.
Da quello di San Pietro fu avvertita una detonazione talmente squassante che pareva che l’intero paese fosse saltato in aria e che faceva inorridire e piangere, sgomente, molte persone.
Nelle case i vetri delle finestre e delle porte furono trovati in frantumi ed affacciandosi, dopo qualche giorno, dai balconi si poteva vedere una serie numerosa di buche che correvano dalla spiaggia sin sotto la Locanda San Pietro ed al cui interno venivano posati dieci fusti di esplosivi. Era, ormai, chiaro agli abitanti che il loro paese avrebbe dovuto essere distrutto, ove i tedeschi ne avessero ravvisata la necessità.
Più tardi il fronte di guerra si spostava verso Sarzana e gli eventi cominciavano a precipitare e Porto Venere diventava il punto di smistamento di uomini e mezzi.
Nella Calata, al calare della sera, i perentori, secchi ordini si accavallavano coi movimenti delle truppe e dei motori delle motozattere nelle quali i soldati venivano imbarcati per ritirarsi verso Genova e, da lì, più in su al Nord.
Erano giorni tristi e cupi, in paese si percepivano ormai la disfatta tedesca e l’approssimarsi del momento terribile della tragedia, ma quest’ultima non poteva e non doveva accadere e la buona sorte ci mise di mezzo (alcuni dicono, con l’ausilio della Madonna Bianca).
Alla Palmaria era stato sostituito, nel febbraio del 1945, il vecchio comandante, detto «il duro», il quale si era sempre opposto allo sminamento, con un nuovo ufficiale che, diceva, fosse un pastore protestante. Questi, considerato che Porto Venere non costituiva più un punto strategico di sbarco, emanava l’ordine di rimuovere le mine ed allora tanti paesani, anche per la penuria di soldati tedeschi, davano il loro contributo all’operazione svuotando i fusti e buttando l’esplosivo che contenevano in mare.


Ma già in una tetra mattina del 1944 un ufficiale aveva messo a disposizione il motoscafo azzurro che serviva ai dirigenti tedeschi nello spostarsi dall’Arsenale a Porto Venere, per permettere ad una coppia di trasportare nel paese il loro bambino di pochi mesi morto all’Ospedale della Spezia.
Si apriva il cuore a un filo di speranza.

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