Le Poste Italiane non conoscono la storia italiana

Nella sezione «Storia delle Poste» del sito delle Poste italiane si può leggere: «Durante il primo anno del neonato Regno d’Italia vennero utilizzati fino ad esaurimento i francobolli del Regno di Sardegna. Portavano l’effigie del Re Vittorio Emanuele II, diventato Vittorio Emanuele I Re d’Italia». Questo è un grossolano errore, perché Vittorio Emanuele non volle cambiare la numerazione dinastica, ma continuò a chiamarsi «secondo», evidenziando così, anche nella forma, una continuità del nuovo Regno con quello piemontese. In un altro capitolo della stessa sezione si lascia intendere una presunta arretratezza del Regno delle Due Sicilie in campo postale, basandosi la valutazione esclusivamente sul numero dei chilometri di strade ferrate e sulla presenza di briganti, dimenticando che in Sicilia ci fu il primo telegrafo ad asta d’Italia; che il primo telegrafo sottomarino d’Europa fu quello tra Reggio e Messina, che meridionali furono il primo telegrafo elettrico, la prima linea regolare di diligenze e la prima convenzione postale marittima d’Italia.
Genzano di Roma

Chissà chi l’ha scritta quella scheda ripresa anche dalla Regione Piemonte, che la pubblica pari pari nel suo sito. Da un lato l’autore fa sfoggio di ignoranza affibbiando a Vittorio Emanuele un numerale che non gli appartenne. Lo propose Angelo Brofferio (nella formula, cara alla sinistra alla quale il deputato apparteneva, di «Vittorio Emanuele è proclamato dal popolo re d’Italia») ma come lei dice, caro Fucile, volendo affermare che quello d’Italia non era un nuovo regno bensì l’estensione del regno di Sardegna sul resto della Penisola, la proposta fu bocciata dal primo Parlamento a favore di «Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia». Dall’altro, l’anonimo e superficiale autore ti va a pescare, quale testimone dello sfacelo del Regno delle Due Sicilie, un testo di Antonio Gicca, presentato come «autorevole economista», mentre era un oscuro, modesto e servile apologeta. Il testo ripreso dalle Poste e dalla Regione Piemonte comparve nel 1862 sul primo (e ultimo) numero della Rivista di diritto amministrativo dal Gicca medesimo diretta. Vi si legge, tanto per intenderci: «Ora che sono caduti i cattivi governi e che la libertà succedette al dispotismo»; che «il Banco di Napoli non era che una meschina istituzione di deposito»; che «nel napoletano circolava sì più moneta per abitante che nel resto d’Europa, però essa marciva negli scrigni»; che l’aristocrazia «copre la più crassa e la più stupida ignoranza» mentre la «classe plebea, mal vestita, mal nutrita, non calzata vive errante di vile salario una misera vita». Insomma, non arriva il Gicca a definire il Meridione, come lo definì Farini, luogotenente di Vittorio Emanuele a Napoli, «Affrica» (aggiungendo: «I beduini, a riscontro di questi caffoni sono fior di virtù civile»), ma siamo lì.
Certo, strade i Borboni ne costruirono poche (il Regno era essenzialmente marittimo), ma anche se per valicare l’Appennino i mezzi postali «non possono procedere oltre tirate da cavalli, ed è necessità che dei bovi traggano la vettura», come gongolava Gicca, la posta arrivava comunque a destinazione. Quanto al servizio telegrafico, era semplicemente il primo in Europa. Nella sola Sicilia erano presenti più di cento stazioni telegrafiche e questo senza dire delle uniche linee sottomarine in attività, quella che collegava la Sicilia al continente e una seconda fra Otranto e Valona che poi proseguiva fino a Istanbul.

Ecco, sarebbe bello e giusto che in occasione dei centocinquan’anni dell’Unità si mettesse fine a questo antimeridionalismo patrio riconoscendo, finalmente, che il Regno era il terzo Paese al mondo, il primo in Italia, come sviluppo industriale. Primato che gli riconobbe l’apposita commissione - non di certo filo-borbonica - dell’Esposizione Internazionale di Parigi, anno Domini 1856. Altro che «Affrica».

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