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«Potremmo restare 10 anni in Afghanistan»

Dobbiamo vigilare sulle elezioni e sulla ricostruzione

Emanuela Fontana

da Roma

Fino a questo momento è stata la missione di peace keeping «regina» in un Paese dove la battaglia per i diritti civili è appena iniziata. La presenza italiana in Afghanistan però non ha carattere temporaneo: c’è un Paese da ricostruire, tra infrastrutture e democrazia ancora in avvio. Per questo, chiarisce il ministro della Difesa Antonio Martino, l’Italia «forse rimarrà in Afghanistan per un decennio». Tempi lunghissimi, spiega Martino, perché il percorso verso una democrazia stabile non è breve: «Si tratta di realizzare dal nulla la stessa presenza fisica dell’autorità statuale», ha valutato ieri a Roma il ministro in occasione della chiusura della sessione del centro Alti studi della Difesa: «Gli ospedali, le scuole, le forze di sicurezza - ha chiarito - . Il tutto richiede la presenza di garanzia delle truppe straniere, sulla cui necessità il presidente Karzai ha più volte insistito».
La prima scadenza in Afghanistan sarà quella delle elezioni di settembre. Il contingente italiano dovrà quindi vigilare con attenzione nei mesi precedenti per evitare che il Paese si trasformi in un sanguinoso teatro di spartizione politica. Proprio prima del rapimento di Clementina Cantoni, a Kabul si era registrata una ripresa dell’attività di alcuni gruppi criminali, tanto che alcune associazioni umanitarie avevano raccomandato i volontari di ridurre gli spostamenti a piedi. Entrambe le operazioni, Enduring freedom e Isaf (International security assistance force in Afghanistan) prevedono anche il controllo del territorio per evitare infiltrazioni di Al Qaida. «Le prossime elezioni di settembre - ha anticipato il ministro azzurro - obbligano tutti i contingenti multinazionali alla massima vigilanza per stroncare sul nascere ogni velleità di violenza dei terroristi, dei criminali comuni, dei signori della droga».
Il contingente italiano attualmente è presente in Afghanistan con 700 uomini: 500 a Kabul e 200 ad Herat. Uomini che hanno dato «un contributo decisivo - ha ricordato Martino - all’avvio della fase due di Isaf». L’Italia, ha concluso quindi il ministro, non lascerà il Paese prima di un decennio: «Dobbiamo essere realisti: il nostro impegno in Afghanistan potrà durare a lungo, forse addirittura quel decennio menzionato dal segretario della Nato». Dal 31 maggio l’Italia comanda il Provincial reconstruction team (Prt) di Herat e ai occupa del coordinamento regionale della missione Isaf. «Appoggiamo - ha sottolineato il ministro - il rafforzamento del ruolo dell’Alleanza in vista dell’organizzazione di una conferenza internazionale per stabilire il cammino futuro dell’Afghanistan».
L’Italia è una fase di espansione delle missioni all’estero: due giorni fa sono arrivati a Khartum i primi sessanta uomini della missione «Nilo» per la pacificazione del Sudan meridionale. Entro la fine del 2005 la presenza italiana nei luoghi dei conflitti passerà da «9mila a 11mila effettivi», annuncia il capo di Stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola. E si pone allora il problema delle risorse, che ieri ha presentato più che in altre occasioni Martino: la «credibilità internazionale» dipende «dalla capacità della Difesa di assicurare il rispetto degli impegni assunti nelle alleanze e organizzazioni a cui partecipa».
Non verrà trascurato comunque l’addestramento delle forze locali, come per l’Irak, dove «noi italiani abbiamo curato l’addestramento di 5mila poliziotti e circa mille agenti della guardia nazionale».

Martino ha quindi voluto rivolgere un «grato pensiero» ai «tanti veri patrioti iracheni»: funzionari, civili, militari e poliziotti «che pagano un alto prezzo per la rinascita del loro Paese».

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