«Povero» Feltrinelli gemente sotto il giogo del capitalismo

Sergio D’Angelo, autore de Il caso Pasternak (Bietti, pagg. 279. 18 euro), mi ha suggerito in una lettera di tornare su quella vicenda e sulla testimonianza che egli ne dà. D’Angelo sottolinea alcune rivelazioni del suo recente libro, basato anche su documenti d’archivio divenuti accessibili in Russia solo negli ultimi anni. «Per esempio il drammatico inasprimento dei rapporti tra Pasternak e Feltrinelli a causa di una procura conferita dallo scrittore a una signora francese, slavista e moglie di un avvocato, per l’amministrazione degli onorari a lui spettanti e la massiccia mobilitazione dei massimi organi del potere sovietico per impedire che si istituisse in Italia un premio letterario intitolato a Pasternak».
Aderisco volentieri al sugggerimento di D’Angelo, che ha tutti i titoli per essere ascoltato con la massima attenzione. L’affaire Pasternak - che diede modo al regime sovietico di dimostrare al mondo la sua cecità e la sua durezza repressiva, e al Pci togliattiano di dimostrare il suo servilismo politico e culturale - cominciò il 20 maggio 1956, quando D’Angelo - allora comunista militante, redattore di Radio Mosca, e munito di un incarico dell’editore Feltrinelli per scovare autori russi - ricevette da Boris Pasternak un pacco piuttosto voluminoso. Era il testo de Il dottor Zivago. Il giovane giornalista italiano era stato incuriosito da alcune righe d’un notiziario culturale della radio di Mosca. Vi si annunciava la imminente pubblicazione del romanzo di Pasternak. Risulta evidente, a posteriori, che la notizia non era stata autorizzata dall’alto. Comunque D’Angelo contattò lo scrittore e se ne andò dalla dacia di Peredèlkino con la sua preda letteraria: che fu un incubo per il Cremlino e un colpo grosso per Giangiacomo Feltrinelli, il miliardario che ebbe sorprendenti intuizioni editoriali e scatti d’orgoglio politicamente scorretto nel difendere Il dottor Zivago.
Riprendo dunque l’argomento, ma probabilmente non nel modo che D’Angelo avrebbe voluto. Sono affascinato da queste memorie di chi visse, dall’interno, la lunga stagione del dispotismo sovietico. Consentono di rivisitare un sistema che non era soltanto torvo e dittatoriale. Era anche d’una cretineria tale da confinare con il genio. Ci voleva del genio per inventare tutti i divieti e tutti i doveri grazie ai quali il comunismo - anche finita la ferocia staliniana - rendeva la vita insopportabile a chiunque, tranne i privilegiati della Nomenklatura. O tranne personaggi singolari come Edmund Stevens: giornalista americano di straordinario talento ed esperienza sposato ad una russa, che s’era insabbiato a Mosca da decenni, che sapeva tutto della vita sovietica, bellissimo uomo che in vecchiaia naufragava nell’alcol. Amico di Indro Montanelli, fu collaboratore del Giornale dall’Urss.
Mi fa piacere che D’Angelo lo abbia citato. Gli parlavo spesso al telefono. Verso le sei del pomeriggio (ora italiana) del 10 novembre 1982 mi chiamò per dirmi: «Breznev è morto». Nessuna agenzia del mondo ne sapeva nulla, ma Ed insisteva. Ci consultammo con Montanelli e Biazzi Vergani e, diffidenti per le intemperanze alcoliche di Stevens, non osammo saltare il fosso. Buttai giù una lunga cronaca non firmata il cui incipit era: «La notizia della morte di Leonid Breznev si è diffusa oggi a Mosca. Nessuna conferma ufficiale». Il resto era tutto un «è morto di sicuro, ma potrebbe essere ancora vivo». Fummo gli unici a titolare sulla morte di Breznev. La conferma delle agenzie arrivò il mattino successivo.
Questo era Stevens, che raccontava episodi irresistibili. Come quello dei truffatori che, scovate in un magazzino montagne di dischi con i discorsi di Stalin, ormai reietti, li avevano muniti di etichette di musica rock e poi venduti agli amatori. «La prima facciata di quei 38 giri - precisava sornione Stevens - era tutta occupata dagli applausi che accoglievano “baffone” ad ogni sua apparizione pubblica».
D’Angelo rende omaggio a un altro amico del Giornale che non c’è più, Valerio Riva. Che si batté affinché Il dottor Zivago fosse pubblicato (parecchi autorevoli redattori erano propensi a rinviare la pubblicazione a quando il testo fosse stato rivisto dai censori di Mosca).

Riva ha rievocato quelle giornate infuocate e il cinismo con cui Giangiacomo Feltrinelli si rivolgeva alla donna amata da Pasternak, Olga Ivinskaia: tanto da dirle a conclusione di una telefonata durante la quale Olga aveva insistito sui suoi problemi economici: «Ma come osa lei che ha il privilegio di vivere nella società socialista porre questi problemi a me che gemo sotto il giogo del capitalismo?».
Scrive D’Angelo, citando Solzenitsin a conclusione del suo libro: «Per il regime sovietico il caso Pasternak non è stato semplicemente un grosso smacco, è stato il primo mattone strappato a una diga».

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