Povero Garibaldi! Gad Lerner ne ha fatto scempio

Caro dottor Granzotto, siccome immagino che nelle prossime settimane e mesi sarà chiamato più volte a rispondere sul tema delle celebrazioni dell'Unità d'Italia, le ricordo che in una trasmissione tv (forse l’Infedele dell’ineffabile Gad, ma non ne sono sicuro) uno dei garanti del Comitato, Dacia Maraini, paragonava Garibaldi al sanguinario torturatore comunista Che Guevara. Lei spiega in un suo Angolo che i garanti sono stati voluti da Prodi, e questo è il miglior commento.
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Per essere esatti (parentesi: ogni volta che voi lettori fate riferimento a una trasmissione televisiva, obbligate il sottoscritto alla ripugnante incombenza di cercarla negli archivi telematici e sorbirsela. È infatti mia puntigliosa cura escludere dal quotidiano menù televisivo i «talk show», gli spettacoli di conversazione. Non per disistima nei confronti dei conduttori o degli ospiti, ma proprio così, per partito preso), a voler essere esatti dicevo, a sostenere che Garibaldi è il Che Guevara del Risorgimento fu l’onorevole Fabio Granata. Per Dacia Maraini, invece, il Che Guevara del Risorgimento fu Carlo Pisacane. Quello de «Eran trecento, eran giovani e forti e sono morti» (il poeta Mercantini dimenticò d’aggiungere che i trecento provenivano dal carcere di Ponza, ivi reclusi per reati comuni e che con un patriottico colpo di mano il Pisacane liberò intendendo con quelli liberare il Meridione). Dacia Maraini ha detto altre baggianate e anche rivelato d’essersi dimessa dal Comitato per le celebrazioni (ove a suo dire fu chiamata «per garantire a livello culturale i progetti», oh là là!) perché vi si respirava un clima di «revisionismo antirisorgimentale» e forse, hai visto mai, si sarebbe finito per parlar male di Garibaldi. Fermo restando che in quella puntata dell’Infedele i fatti e i misfatti risorgimentali erano solo un pretesto per dare addosso al nuovo babau dei «sinceri democratici», la Lega, e per ulteriormente demonizzare Umberto Bossi, mi sembra che Dacia Maraini ne sia uscita con le ossa rotte. Gli ospiti, fra i quali fior di storici, concordavano infatti sull’occasione offerta dal centocinquantenario per una lettura più serena e meno retorica dell’epopea risorgimentale. Per «fare chiarezza». A difendere a spada tratta l’intangibilità della vulgata c’erano, oltre alla Maraini, solo Gad e Andrea Camilleri. Di quest’ultimo basti sapere (è evidente, caro Garberoglio, che mi rivolgo ai lettori che hanno pensato bene di saltare il turno dell’Infedele) che per rintuzzare il revisionismo tirò in ballo persino due zii «andati a morire - nella guerra del ’18 - per difendere i confini della patria». Mentre un Lerner tutto giulivo ripeteva che da bimbo s’era innamorato, proprio così, innamorato, degli eroi del Risorgimento e di Peppino Garibaldi in particolare e che dunque non voleva sentirne parlare non dico male, ma nemmeno in tono critico. Perché siccome se n’era innamorato lui, Garibaldi «è un mito per tutti» (e in quanto tale, aggiunse la Maraini, un «modello da introiettare»). Primato subito smentito dai presenti, ma che non ha spento i bollori gaddeschi, specie quando a quello di don Peppino fu accostato il nome di Che Guevara, subito corretto dalla Maraini, evidentemente lì per garantire a livello culturale la trasmissione, in quello di Pisacane. Vede, caro Garberoglio, Garibaldi ne fece di cotte e di crude, di buone e di pessime.

Ma che debba pagare queste ultime coll’essere difeso da avvocati come Lerner, Maraini o Camilleri e con argomentazioni come quelle esposte durante la puntata dell’Infedele, è una punizione davvero che non si merita (fosse stato presente, avrebbe sibilato al terzetto garibaldesco quanto urlò, dal balcone del Campidoglio - febbraio 1859 -, alla gente che scalmanando lo acclamava eroe, duce impavido, supremo condottiero, liberatore e vindice: «Romani, siate seri»).

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