Praga, c'era anche il Pci sopra quei carri armati

Nei momenti più tragici dell'aggressione contro la Cecoslovacchia l'Unità minimizzò le violenze. Ma soprattutto cancellò le voci dei riformisti, come Dubcek, che si opponevano al partito unico. Gli organi di stampa del Pci censurarono anhce il "manifesto delle duemila parole" elaborato dagli intellettuali praghesi

Praga, c'era anche il Pci sopra quei carri armati

Alessandro Frigerio

Su l’Unità anche nei momenti più drammatici i toni nei confronti degli avvenimenti cecoslovacchi e dell’URSS saranno sempre concilianti, quasi mai espliciti, sempre sfumati ed esasperatamente astratti. Fino a scivolare nel silenzio più totale o, nella migliore delle ipotesi, nella citazione minimalista. Soprattutto quando il quotidiano ha a che fare con eventi estranei al sistema di potere del partito unico, e che possono quindi prefigurarsi come un tentativo di «opposizione» al socialismo reale.

Fu il caso, clamoroso, del «Manifesto delle duemila parole», lanciato dallo scrittore Ludvik Vaculik e sottoscritto a fine giugno da decine di intellettuali praghesi per sollecitare Dubcek a continuare la strada delle riforme e a non cedere alle crescenti pressioni del Cremlino. Il manifesto chiedeva di sostenere il nuovo corso anche con l’arma dello sciopero e invitava il partito a sbarazzarsi dei quadri troppo vicini al destituito segretario Novotny e a Mosca. Pubblicato il 27 giugno 1968 da tutti i giornali cecoslovacchi, e poi dalla stampa occidentale, su l’Unità il manifesto non vedrà mai la luce, accomunato in un destino di irreperibilità con il rapporto di Kruscev al XX congresso del Pcus.

Se ne troverà una timida traccia - una colonna di cinquanta righe - in ultima pagina qualche giorno dopo, il 29 giugno. Ma nel titolo il manifesto non viene nemmeno citato: «Condannato un appello provocatorio». Tutto qui. \[...\] Nella succinta corrispondenza, infatti, si fa cenno solo alla preoccupazione dell’Assemblea nazionale cecoslovacca che condanna l’appello come «un atto di grave significato politico che potrebbe provocare il sorgere di forze estremiste». Ma citando solo questa voce l’Unità la sposa acriticamente, condannando di conseguenza alla categoria dell’estremismo politico, o degli involontari ma altrettanto pericolosi agitatori, chiunque non la condivida.

Ed è proprio quel che accade il giorno successivo. L’Unità torna a parlare del manifesto appena più diffusamente, ma senza esporsi. «Critiche e giustificazioni sul manifesto “duemila parole”» recita il titolo \[...\]. Nella cronaca viene dato conto del dibattito suscitato nella società cecoslovacca. Ma ancora una volta una prudente cautela induce il giornalista a evitare commenti e a sposare solo le voci critiche. Vengono quindi riportate le parole di Dubcek, che si appella al senso di responsabilità e all’esigenza di dare una direzione unitaria al processo iniziato. Ma si aggiunge poi che il presidente del PCC «ha espresso il suo rammarico perché l’appello restringe lo spazio di attività delle forze progressiste in seno al Comitato centrale del partito e aiuta quelle che vogliono ritardare la democratizzazione». In sostanza, conclude l’articolo, «gli autori del manifesto hanno agito in buona fede nell’intento di contribuire allo sviluppo del processo di democratizzazione. Tranne alcuni passi - che denotano una confusa visione della situazione politica e la volontà di sbloccare ad ogni costo una fase transitoria - il documento contiene dei rilievi che corrispondono alla realtà. Agli autori va fatta però la critica di aver elaborato il manifesto troppo in chiave di sfogo e dominati da una visione pessimistica della situazione, nonché di non aver valutato l’opportunità o meno della sua pubblicazione». \[...\]

Anche Rinascita non pubblica il «Manifesto delle duemila parole». Se ne occupa solo per contestarlo. E lo fa ben tre settimane più tardi («Il punto attuale del dibattito in Cecoslovacchia. “Mille parole” in risposta alle “Duemila”»). Recita il corsivo anonimo: «\[il manifesto\] non costituisce tanto un tentativo di analisi politica originale o di manifesto programmatico, quanto piuttosto un intervento diretto nelle questioni di partito e di governo più urgenti». \[...\] «Il limite del documento, che è stato oggetto di aspre critiche, risiede anzitutto nella sommarietà dell’analisi storica che sta alle sue spalle», perché «sembra mettere in secondo piano o addirittura ignorare il valore della scelta storica per il socialismo fatta vent’anni fa dalla Cecoslovacchia: scelta storica che, nonostante la gravità degli errori compiuti nella gestione del potere, deve essere alla base anche dell’attuale coraggioso processo di rinnovamento». \[...\]

Anche un altro passaggio critico, l’ukaz del 15 luglio - cioè la lettera sottoscritta dai partiti comunisti di URSS, DDR, Polonia, Ungheria e Bulgaria, riuniti a Varsavia, con cui si «invita» Dubcek a riassumere il controllo dei mezzi di informazione, a ripristinare il ruolo totalitario del partito e a eliminare le correnti favorevoli alle liberalizzazioni -, viene letto su l’Unità e Rinascita con toni straordinariamente pacati.

Il quotidiano scrive di una «lettera comune a Praga dei cinque Paesi socialisti», i cui contenuti sarebbero ancora segreti. Ma evita accuratamente qualsiasi commento sul vertice di Varsavia, che di fatto si è risolto in una condanna in contumacia del gruppo dirigente cecoslovacco. La lettera verrà pubblicata integralmente il 19 luglio, insieme alla risposta del Partito comunista cecoslovacco, ma anche questa volta senza commenti da parte del quotidiano. Unica eccezione, una lunga risoluzione della Direzione del PCI («La posizione del PCI sulla questione cecoslovacca») che esprime «preoccupazione per la situazione che si è creata in un momento in cui è più che mai necessaria l’unità di tutte le forze comuniste e progressiste contro l’imperialismo», e che riafferma «la solidarietà, già manifestata in tutti questi mesi, con il processo di rinnovamento democratico della società socialista cecoslovacca, di cui si sono fatti iniziatori, con il compagno Dubcek, i nuovi dirigenti del partito fratello».

Su Rinascita del 26 luglio il direttore Luca Pavolini («Autonomia e internazionalismo») \[...\] spiega che la linea seguita dal partito è quella «dell’unità nella diversità»: cioè salda presenza all’interno del movimento rivoluzionario mondiale ma in modo che «ciascun partito partecipi nella propria autonomia, al fine di conseguire una migliore e più articolata unità nella lotta contro il comune nemico imperialista». \[...\] Per la Cecoslovacchia, conclude il direttore, l’obiettivo dei comunisti italiani «è sostenere l’opera di rinnovamento della società socialista, sotto la guida del partito, dimostrando la forza ideale del marxismo, la sua validità e attualità di dottrina sociale». \[...\]

Non è un caso che nei due mesi che precedono l’invasione sovietica nessun articolo di fondo, quindi nessun commento, venga dedicato alla questione cecoslovacca. Mentre le manifestazioni studentesche e la guerra in Vietnam trovano ampi spazi di condanna e di denuncia, quando il discorso si sposta sui Paesi del blocco socialista la capacità critica viene improvvisamente meno, l’acutezza e la prosa accalorate dei giornalisti si inaridiscono repentinamente, così come tende a svaporare la capacità di spiegazione e di sintesi. \[...\]

Bisogna aspettare il 2 agosto per trovare su Rinascita un primo commento articolato. Lo firma Pietro Ingrao («L’arma della democrazia»). \[...\] Il fattore scatenante la questione cecoslovacca, scrive Ingrao, è da ricondursi a un problema meramente economico: «In primo luogo, dobbiamo ricordare che all’origine degli avvenimenti cecoslovacchi è il punto di crisi a cui era giunto lo sviluppo economico. [...]Ritardi pesanti nello sviluppo della produttività dell’industria, [...]difetti e incongruenze nelle scelte produttive che ne derivavano e quindi difficoltà dello sviluppo generale». Solo in seconda battuta l’autore riconosce che, oltre alla struttura economica, anche il sistema di costruzione della società socialista ha perso slancio. Al quale sta ponendo rimedio, spiega, la riorganizzazione del potere voluta da Dubcek. \[...\]

Il 2 agosto l’Unità titola con un «Mutua comprensione» a caratteri cubitali la fine dei colloqui con Breznev a Cierna. Scrive con enfasi degna di miglior causa Adriano Guerra in prima pagina: «Il fatto dunque che si sia voluto sottolineare la “comprensione” con cui ogni partito ha preso atto a Cierna delle posizioni dell’altro, è sicuramente un fatto di grande importanza e che da solo ci permette di giungere alla conclusione che l’incontro ha raggiunto uno degli scopi per i quali era stato voluto. A Cierna, insomma, si è parlato fra compagni e si è deciso di andare avanti per rafforzare l’unità. Da Cierna escono sconfitti soltanto gli imperialisti che speravano di potersi inserire nella crisi e anche quei gruppi di dogmatici che contavano forse di poter sfruttare la tensione fra la Cecoslovacchia e gli altri Paesi socialisti per riproporre assurde marce a ritroso della storia». \[...\] A conclusione della successiva e inconcludente riunione a Bratislava, in cui la delegazione cecoslovacca viene messa di fronte a una sorta di tribunale composto da Kadar, Hulbrict, Gomulka, Zivkov e Breznev, l’Unità titola con paradossale enfasi: «Un metodo nuovo nei rapporti tra i partiti operai e comunisti». \[...\]

Per il resto, a due settimane dall’invasione sovietica le cronache de l’Unità esaltano enfaticamente il «tessuto unitario» all’interno del quale si sono svolti gli incontri, la «franchezza» e la «sincerità», il «clima di mutua comprensione reciproca», gli «applausi dei cittadini alle delegazioni», il «senso profondo dell’unità socialista», l’«atmosfera distesa», e la «fraterna amicizia» tra tutti i Paesi del blocco socialista. I toni sono quelli del comunicato stampa, intervallati da citazioni di documenti ufficiali. Completamente assente, invece, l’analisi critica. Lo slogan che rimbalza ossessivamente dalla prima all’ultima pagina è «unità nella diversità» \[...\].

Di fronte al quadro tratteggiato nelle settimane precedenti, l’intervento sovietico del 21 agosto cade come un fulmine a ciel sereno. Il titolo di apertura de l’Unità del 22 agosto recita «Ore drammatiche a Praga». Solo a caratteri più piccoli si legge dell’improvviso intervento militare dei cinque Paesi del Patto di Varsavia. L’ufficio politico del PCI esprime il suo dissenso attraverso un comunicato in prima pagina, non senza confermare l’immutata amicizia con l’URSS: «Allo stato dei fatti, non si comprende come abbia potuto in queste condizioni essere presa la grave decisione di un intervento militare. L’ufficio politico del PCI considera perciò ingiustificata tale decisione, che non si concilia con i principi dell’autonomia e indipendenza di ogni partito comunista e di ogni Stato socialista e con le esigenze di una difesa dell’unità del movimento operaio e comunista internazionale. È nello spirito del più convinto e fermo internazionalismo proletario, e ribadendo ancora una volta il profondo, fraterno e schietto rapporto che unisce i comunisti italiani alla Unione Sovietica, che l’ufficio politico del PCI sente il dovere di esprimere subito questo suo grave dissenso».

Sulle stesse pagine il 23 agosto Roberto Romani attacca la stampa «borghese» («La nostra risposta»): «Nei momenti più difficili della sua esistenza il nostro movimento ha imparato a conoscere di che panni sa vestirsi il suo avversario, con quale cupidigia esso cerca di afferrare l’occasione che ritiene propizia per prendere l’iniziativa, isolare l’avanguardia operaia e vibrarle il colpo; con quale trivialità ringalluzzisce l’anticomunismo viscerale della stampa, dei partiti e degli uomini politici borghesi. Le difficoltà del movimento operaio sono per loro qualcosa di più di autentiche ghiottonerie professionali, sono opportunità di “riscatto”». Ma, continua Romani, \[...\] «che cosa pretenderebbero da noi? Che ci lasciassimo trascinare dal grave errore a nostro avviso compiuto dai compagni sovietici e degli altri Paesi socialisti ad una cieca condanna del “sistema”? Che dimenticassimo la lezione universale dell’Ottobre rosso e l’attuale contributo sovietico alla battaglia antimperialista?». \[...\]

Di Dubcek, sequestrato dalle forze speciali sovietiche, trasferito a forza prima in Ucraina e poi a Mosca, non si hanno più notizie. È un desaparecido, ma la sua sorte non sembra turbare più di tanto il PCI. \[...\] Neanche intellettuali organici al partito come Bianchi Bandinelli, Paolo Spriano e Cesare Luporini vi fanno cenno nelle loro dichiarazioni di adesione alla linea del PCI. Nemmeno uno di loro leva la sua voce per chiedere notizie del leader la cui sorte è ignota da più di tre giorni. Bandinelli parla di sclerotizzazione dell’apparato dirigente sovietico», Spriano di «un colpo portato al cuore dell’internazionalismo proletario», mentre Luporini esprime «la solidarietà ai compagni e al popolo cecoslovacco» («Adesione di intellettuali alla posizione del PCI», l’Unità, 23 agosto). Ma nessuno di loro spende una sola parola per Dubcek. Il cui nome fa capolino solo in una cronaca del 25 agosto a proposito di alcune «voci» sulla sua presenza a Mosca nei colloqui forzati cui il presidente cecoslovacco Svoboda è stato costretto. \[...\]

Svoboda e Dubcek rientrano nel loro Paese dopo cinque giorni di trattative forzate con Breznev, che di fatto segnano la cancellazione delle riforme, e l’Unità titola (il 28 agosto): «Nei primi messaggi alla nazione cecoslovacca dopo la conclusione delle drammatiche trattative di Mosca Svoboda e Dubcek al popolo riaffermano l’impegno per il rinnovamento socialista». Un rinnovamento che è ancora una volta una formula vuota. L’URSS, di fatto, ha imposto ai delegati cecoslovacchi una progressiva «normalizzazione» del Paese, cioè il ristabilimento del controllo sulla stampa e sulla televisione, e la marginalizzazione di tutti gli elementi riformatori all’interno del partito.

Giancarlo Pajetta durante il dibattito del Comitato Centrale del PCI saluterà con entusiasmo il «successo», esaltandolo come una grande vittoria del popolo e del partito cecoslovacchi: «Si deve ricordare come un aspetto positivo che a questo compromesso si è giunti attraverso una lotta politica e attraverso la partecipazione attiva delle masse: la maturità e la saggezza dimostrate, come la capacità di contrastare duramente e responsabilmente errori gravissimi che avrebbero potuto diventare esiziali, si sono manifestate sotto la guida dei comunisti cecoslovacchi, che hanno dimostrato di avere quella forza morale che proprio la milizia di partito produce, l’animo rivoluzionario che ha per base la dottrina rivoluzionaria del marxismo e del leninismo». («L’ampio dibattito al Comitato Centrale e alla CCC sull’intervento militare in Cecoslovacchia», l’Unità, 29 agosto).

Il segretario del PCI, Luigi Longo, dichiarerà invece pochi giorni dopo a Rinascita: «La nostra collocazione è del tutto chiara e irrinunciabile.

Noi staremo sempre dalla parte del socialismo, dei paesi e dei partiti che hanno realizzato il socialismo e che intendono salvaguardarlo e portarlo avanti: noi staremo sempre dalla parte dei paesi e dei popoli che si battono contro l’imperialismo» («Risposte a tre domande», 13 settembre). \[...\]

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