«Berlusconi? Deve stanare Fini e portarlo alla prova delle urne».
Marco Tarchi, politologo e docente di Scienze politiche all’università di Firenze, non ha dubbi sui rischi che corre la maggioranza. Tarchi conosce bene Fini, da più di 30 anni, quando militavano nell’organizzazione giovanile del Msi e si sfidarono per la guida del movimento.
1977, assemblea nazionale del Fronte della Gioventù. Lei raccolse la maggioranza dei voti mentre Fini solo una manciata, arrivando quinto nella corsa alla segreteria. Ma Almirante lo nominò comunque leader dell’organizzazione giovanile.
«Il partito usciva dalla scissione di Democrazia nazionale a cui aveva aderito quasi tutta la classe dirigente giovanile, salvo alcuni dirigenti dell’opposizione interna rautiana, tra i quali c’ero anch’io. Almirante non si fidava abbastanza degli uomini rimasti».
Quindi Fini era già un delfino designato a 25 anni?
«Sì, perché si era trovato in una situazione favorevole. Già alla vigilia dell’assemblea tutti sapevamo che sarebbe stato nominato lui. Il regolamento congressuale, fatto ad hoc e imposto in modo non troppo ortodosso, prevedeva che Almirante potesse nominare segretario uno dei sette più votati. Il gioco era finito prima di giocare».
I militanti però non accolsero serenamente la decisione di Almirante...
«No, perché la votazione dimostrò che c’era una maggioranza avversa. I militanti non apprezzarono perché l’Assemblea aveva dimostrato che Fini non godeva del consenso della maggior parte dei centri provinciali».
I primi passi di Fini.
«Ebbe molte difficoltà nei primi due anni, ma le superò anche con il pesante appoggio di Almirante e la sua politica degli interventi disciplinari. La sostituzione dei segretari dissidenti per normalizzare la situazione divenne la regola».
Nel ’77, durante il primo Campo Hobbit (festa della destra giovanile) i pochi finiani presenti furono presi a schiaffi proprio per questo.
«Viespoli ha rivendicato di aver schiaffeggiato Fini. Ma non esagererei. Sono stati episodi marginali».
Nel suo ultimo libro, «La rivoluzione impossibile», analizza quel periodo. Nel Msi si parlava di svolta moderata con Fini. Ma poi la parte più movimentista divenne protagonista degli anni di piombo.
«È stato un fenomeno limitato, quasi tutto romano con alcune piccole appendici locali. C’è da dire che però alcuni tentativi di moderazione provocarono la reazione opposta. Ma nel suo interno il Fronte della Gioventù non ha avuto grossi problemi. Direi che sia stato soprattutto il clima esterno che metteva a repentaglio la possibilità di fare politica».
Poco dopo si consumò il suo divorzio con il Msi.
«Era il gennaio del 1981».
Il suo giornale (La voce della fogna), amato dai militanti, era poco gradito ai vertici del Msi, spesso nel mirino della satira.
«C’erano state numerose manifestazioni d’insofferenza per La voce della fogna non tanto perché attaccava i vertici quanto perché criticava un certo atteggiamento mentale predominante nel partito totalmente inadatto ai tempi. I motivi di scontro furono tanti. Primo fra tutti la proposta di reintrodurre la pena di morte, appoggiata da Fini».
Ma se non l’avessero messo alla porta avrebbe continuato l’ attività politica?
«Il divorzio si sarebbe consumato comunque. Quando mi dimisi da vicesegretario scrissi una lettera molto polemica a Fini in cui dicevo che non esisteva spazio alcuno per il dissenso interno. E portavo come esempio la destituzione di due dirigenti napoletani, che con i loro voti avrebbero fatto vincere la componente rautiana nelle elezioni per la segreteria della Campania. Per evitare una sconfitta, Fini li cacciò dall’oggi al domani. Per me fu la goccia che fece traboccare il vaso».
Intolleranza per il dissenso, è proprio quello ora che Fini denuncia all’interno del Pdl...
«Di questo ne ho scritto anche in sede scientifica. Nel libro Dal Msi ad An, ho scritto che il Msi era, e An dopo ancor di più, un partito a centralismo plebiscitario. La gestione era affidata a un leader considerato una sorta di sovrano assoluto. Fini ha esercitato questi poteri in modo assolutamente drastico, avendo in grande astio qualsiasi forma di dissenso»
Nel 1987 ci fu la festa del partito a Mirabello, con Almirante che designò Fini suo erede. La genesi?
«Dell’87 ricordo ciò che scrissero i giornali, come Panorama, che definì Fini “il miracolato dell’Assunta”. Cioè Assunta Almirante che aveva convinto il marito a designare Fini suo erede. Non so se corrispondesse al vero ma questa è l’interpretazione che se ne dava. Di sicuro Fini era designato da altri. Lui non doveva fare nulla, erano altri a fare per lui».
E adesso?
«Adesso deve star da solo e trovare la linea adeguata. Comunque non è da oggi (come politologo lo dico da anni), che la sua posizione è quella di chi non pensa di ottenere la legittimazione di leader dall’interno della forza politica a cui fa riferimento. Da tempo si presenta come ragionevole a ogni costo, moderato, politicamente corretto perché spera in una fase confusa o difficoltosa di un post Berlusconi per essere legittimato dagli altri, dagli avversari e così costruire qualcosa di più solido».
Oggi, 23 anni dopo, un’altra Mirabello, tanto attesa per scoprire quale strada sceglierà Fini. La sua nemesi?
«A Mirabello ci sarà una prova di forza. Lancerà il sasso ma ritirerà la mano. Non credo che farà uno nuovo partito, lui cerca di lavorare ai fianchi, di erodere, ma ha tutta la convenienza di restare nel Pdl».
Durante la sua segreteria, Fini è riuscito a fagocitare gli avversari oppure a epurarli. Sistema Fini oppure sistema Msi?
«Nel 1995 ho definito l’atteggiamento mentale dominante tra i quadri e i militanti il “complesso di Mosè”, cioè affidare al capo, quasi fosse un profeta, ogni responsabilità per la vita stessa della comunità dei militanti e dei sostenitori. Ora, se si pensa che Fini, più per le circostanze che per capacità sua, è riuscito a traghettare fuori dal periodo di cattività quel mondo politico e umano, si può capire perché l’intolleranza aperta verso il dissenso abbia trovato in lui un interprete ancor più rigoroso».
La nuova compagna, la famiglia Tulliani e i suoi affari, Montecarlo, lo strappo nel Pdl... È un altro Fini?
«A parte le note vicende che lo hanno coinvolto quando la prima moglie abbandonò il marito, dirigente del Fronte della Gioventù, per lui, mi è parso tenere un profilo sempre molto basso sulle sue vicende personali. Anche su questo ha cercato di essere l’opposto di Berlusconi. Ma io, da ricercatore, mi baso unicamente sui fatti e sui documenti, quindi non ho elementi per dire se c’è stato qualche cambiamento. Di certo ora dà un immagine di divisione più che di unione, come è avvenuto quando nacque An. Ora appare come il leader di una corrente, cosa che in passato ha sempre aborrito».
Molti invocano le sue dimissioni, per la questione Montecarlo e per l’incompatibilità tra leader politico e carica istituzionale.
«Ho una posizione diversa. Nell’analisi della politica seguo un approccio realista. Vorrei scrostare da molta ipocrisia le figure istituzionali: hanno tutte una storia politica alle spalle. Non si cambia drasticamente perché si passa su uno scranno significativo. Certo, la sovraesposizione e lo scontro interno non rendono Fini credibile come arbitro agli occhi della maggioranza che lo ha eletto».
Pugnalate e diplomazia: il Pdl è ad un’impasse. La maggioranza finirà la legislatura?
«A Fini e ai suoi conviene che il governo si logori giorno dopo giorno, non che cada. Se Berlusconi giungesse spossato a fine legislatura, i finiani potrebbero rivendicare buone ragioni per sancire alleanze diverse. Insomma, hanno un interesse evidente a giocare contro il Pdl, ma se accelerassero troppo rischierebbero di doversi sottoporre prima del tempo alla prova delle urne, senza essere preparati. E il loro prevedibile scarso peso non li renderebbe appetibili per i patrocinatori di terzi poli».
E al Pdl quali carte rimangono?
«Per quanto sia un azzardo, a mio parere Berlusconi avrebbe un vantaggio a stanare Fini portandolo alla prova delle urne. Il logorio serve a Fini, non a Berlusconi»
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