Preso il marocchino: ha ucciso la figlia perché non voleva che vivesse in Italia

LA TELEFONATA È stato rintracciato dopo aver chiamato la sorella da una cabina della stazione

nostro inviato a Treviso

L’idea, in sé, non era malvagia. Mi cercheranno a occidente, tra Italia e Francia, dove sanno che ho amici e parenti, aveva pensato Fahd Bouichou. Dunque me la filerò a oriente, verso la Slovenia. Di lì tirerò dritto fino in Olanda, dove ho amici che mi aspettano. Chi mi cercherà lassù? Basterà che tenga spento il telefonino… Si sentiva già in salvo, Fahd l’assassino. Trieste alle spalle, il passo rapido e sicuro, il ghigno di chi l’ha fatta franca stampato sulla faccia, ecco dunque Fahd il marocchino. La faccia ossuta, il naso da rapace, Fahd incede a petto in fuori, respirando ormai largo e sentendosi un superfigo pazzesco quando all’improvviso, sbucato dal nulla, gli si para davanti un agente della Stradale, in Slovenia. «Documenti, prego… ».
Come tutti gli assassini, anche il balordo nordafricano che martedì ha sgozzato la compagna Elisabetta Leder e la figlioletta di neppure due anni, Arianna, a Castagnole di Paese, vicino Treviso, è un fesso col botto che sottovaluta la sapienza investigativa e le diaboliche orecchie elettroniche di cui si servono oggi le polizie di tutto il mondo.
Fahd Bouichou termina la sua corsa nella zona di Cosina, nei pressi del confine italo sloveno di Pesek, sull’altipiano carsico, a pochi chilometri da Trieste. Ai poliziotti che da Treviso avevano organizzato una gigantesca caccia all’uomo è bastato seguire a ritroso la bava di una telefonata che Fahd aveva fatto da una cabina pubblica della stazione di Trieste alla sorella, in Marocco. Ecco l’errore: non immaginare che le utenze dei suoi parenti in Marocco fossero già blindate. E spifferare, nel corso di quella telefonata, i progetti di viaggio…
L’automobile con cui era fuggito, la Skoda nera di Elisabetta, era già stata trovata dai vigili urbani di Jesolo. Di lì, forse in treno, forse in autostop si era diretto verso il confine, aggirando le forche caudine del valico di frontiera. Alla fine, il passo falso. La cattura, le manette e però il rifiuto dell’estradizione.
Sollievo, soddisfazione, a Castagnole. Sia a casa dei genitori della povera infermiera massacrata insieme alla figlioletta sia nelle migliaia di abitazioni dell’immenso circondario veneto, dove la gente intuisce, prima che glielo ricordi il telegiornale tutte le sere che la sicurezza, intesa come bene primario, è un lieto ricordo del passato.
Contento, ma senza furori vendicativi, è anche don Gino Busatto, parroco di Castagnole. L’altro ieri, parlando con i giornalisti, aveva detto: «Non vorrei che in questa vicenda ci fossero anche certi aspetti legati per così dire alla diversa appartenenza religiosa. Il che, poi, si traduce in un modo diverso di intendere la vita. Non vorrei… ».
Ma ora, dopo aver letto sui giornali le sue dichiarazioni, incastonate tra le foto di Elisabetta Leder, 36 anni, e della sua figlioletta Arianna, il parroco si è un po’ spaventato di fronte all’eco suscitata dalle sue parole. Perché lì, dietro quella «diversa appartenenza religiosa» non c’è soltanto la sconfinata saggezza racchiusa nel vecchio adagio popolare che raccomanda di scegliere «mogli e buoi» non lontano dal proprio paese. Qui, se fosse vero, se il battesimo imposto alla piccola Arianna fosse stato la causa scatenante del duplice omicidio, adesso i giornali ci monterebbero pagine e pagine di scandalo e indignazione e raccapriccio; e insomma dalla possibile «cerimonia di riparazione», da quel battesimo «sacrilego» agli occhi di Fahd il musulmano - roba da lavare col sangue - saremmo già a Bin Laden e ad Al Qaida, allo scontro di civiltà e alle prevedibili, susseguenti accuse di crociata contro gli infedeli.
Così, oggi, don Gino se n’è rimasto zitto e buono, catafratto nella sua canonica all’ombra del campanile di San Mauro su cui svetta la figura di un angelo su un sol piede (bella metafora di un nord est che va di fretta… ). Se poi il battesimo sia stato davvero causa, o una delle cause scatenanti del duplice delitto, è difficile dire. La cerimonia, del resto, è del gennaio 2008, oltre un anno fa. Troppo tempo in mezzo per pensare a questo orribile spargimento di sangue come «rimedio» di un’offesa al Profeta. Dunque non resta che pensare alla furia - una furia gelida, come fredda e calcolata è stata la fuga, a cellulare spento e a piedi per tratturi fino in Slovenia… - innescata dalla decisione di Elisabetta. Passata la sbornia dell’innamoramento (più una passione passeggera sotto la luna piena di Marrakech col giovane e focoso marocchino, si direbbe) Elisabetta si era decisa ad avviare le pratiche di affido di Arianna. Troppo lontani nella memoria, ormai, le immagini di Fahd, giovane e sorridente guida turistica che nell’estate del 2006 l’aveva portata a visitare la Kutubya, il minareto più antico delle tre torri almohadi (insieme alla Giralda di Siviglia e la torre Hassan a Rabat). Solo un ricordo sbiadito i tè alla menta sorseggiati con quel ragazzo che parlava bene il francese e l’italiano, occhi negli occhi, nel giardino incantato dell’hotel Mamounyah… Ora, a 26 anni, incapace di trovare un lavoro che non fosse in nero, in un nord est che comincia a conoscere i morsi della disoccupazione, Fahd è un’anima in pena, un pendolare fra Castagnole e la Francia, dove risiede gran parte del suo clan. Insomma: una pagina da chiudere, per la giovane infermiera che si era ritrovata a badare da sola, economicamente, alla piccola Arianna. La decisione di avviare la pratica di affido nasce così, e forse non tiene conto dell’orgoglio, dell’«onore» (concetto che andava di moda anche da noi, qualche decennio fa) del giovane marocchino che si sente messo da parte, magari usato e poi emarginato.
Comunque la si rigiri, la rabbia popolare di fronte all’atroce spettacolo di quella bambinella sgozzata accanto alla madre, lei pure morta di coltello, si tinge di intolleranza nei confronti degli immigrati, dei «mori». E non se ne sentiva il bisogno. Solo in provincia di Treviso, i marocchini sono 12mila.

Etnia maggioritaria fino a qualche anno fa, prima che si aprissero le cateratte della Romania. E poi i polacchi, e gli albanesi, e i nigeriani. Ora, con la crisi in arrivo, chissà che ribollire di intolleranze xenofobe, don Gino.

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