Finalmente un vero premio per la libertà, il rispetto dei diritti umani, la democrazia, come non si vedeva da tempo. Il Nobel per la pace è stato assegnato ieri a Liu Xiaobo, coraggioso dissidente che sta marcendo in una galera cinese per «la sua lunga e non violenta battaglia per i diritti fondamentali dell'uomo». Il riconoscimento più famoso al mondo stavolta ha fatto centro. Non più un premio per la pace, come lo scorso anno, al presidente americano Barack Obama, appena insediato, che in Afghanistan ha mandato in guerra 100mila uomini. O ancora peggio il Nobel assegnato nel 2007 al catastrofista ambientale, Al Gore, o a Yasser Arafat, che in un mano teneva l'ulivo e nell’altra il kalashnikov.
Questa volta gli accademici di Oslo sono tornati a imboccare la strada maestra sottolineando la «connessione fra diritti umani e pace nel mondo». Nella motivazione del premio al dissidente di 54 anni si legge che nonostante la Costituzione cinese sancisca il diritto dei suoi cittadini «di associazione, assemblea, manifestazione e parola, queste libertà in realtà non vengono messe in pratica». E difficilmente potrebbe essere il contrario per un paese retto dal partito unico comunista, che si permette di beffeggiare la democrazia grazie ai suoi muscoli economici.
Secondo il Comitato del Nobel, Liu è un «grande difensore dei diritti umani fondamentali che ha preso parte alla protesta di Tienanmen nell'89» ed è «diventato il simbolo principale di questa lotta». Il nuovo Nobel per la pace è un prigioniero di opinione, che le autorità di Pechino hanno tentato di far dimenticare. Nato a Changchun, nel nord est, è stato educato da cristiano. Da giovane ha fatto il contadino e l'operaio, ma la sua strada era diversa.
All'università, quando gli intellettuali cecoslovacchi firmavano Charta ’77 per il rispetto dei diritti umani nell’Europa dell'Est, Liu fondava «Cuori innocenti», un gruppo di studenti poeti. Il futuro Nobel, laureato in letteratura, inizia a insegnare all'ateneo di Pechino, ma i suoi scritti e le idee condivise con gli studenti fanno scattare la messa al bando.
Se ne va in esilio ospitato dall’università di Oslo e dalla Columbia di New York, ma quando scoppia la protesta di Tienanmen torna in patria. Ma dopo la breve fiammata di lotta per la libertà e la sanguinosa repressione lo sbattono in galera per 20 mesi. Liu non demorde e pochi anni dopo raccoglie petizioni fra gli intellettuali indirizzate al parlamento. Le autorità cinesi tornano a incriminarlo, ma il coriaceo dissidente resiste. Nel 1996 fa appena in tempo a sposarsi che lo sbattono in un campo di rieducazione e lavori forzati per tre anni. La sua colpa è quella di chiedere libertà religiosa, di stampa e di espressione.
Una volta rilasciato continua a battersi e ad affrontare argomenti tabù come la questione tibetana. Nel 2008 firma la sua condanna preparando il Manifesto '08, sulla falsariga della Charta '77, nel sessantesimo anniversario dell'approvazione all'Onu della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per Liu «la democratizzazione politica non può più essere rinviata». Lo firmano 303 intellettuali e dissidenti. Prima che la censura elettronica lo blocchi raccoglie su internet 10mila adesioni.
Alla vigilia della stampa del Manifesto Liu finisce in manette e sembra sparire nel nulla. Il 25 dicembre 2009 viene condannato ad 11 anni di carcere per «incitamento a sovvertire il potere dello Stato».
Da quel giorno Liu marcisce per le sue opinioni nella galera di Jinzhou, nel nord est della Cina, dove la moglie va a trovarlo una volta al mese, a patto che non parli di politica. Il Nobel dietro le sbarre è dimagrito, ma legge e scrive. Talvolta la censura viene gabbata: lo scorso febbraio un giornale di Hong Kong pubblica le idee di Liu Xiaobo, «colpevole di crimine di parola».
www.faustobiloslavo.eu
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.