RomaOggi sono i maggiori sostenitori dei referendum. Uno - Antonio Di Pietro - è addirittura tra i promotori mentre laltro - Pier Luigi Bersani - dopo avere un po tentennato, ha deciso di metterci la faccia e farne il prossimo cavallo di battaglia del Partito democratico. Pochi anni fa erano dallaltra parte della barricata. Nel 2006, ad esempio, i loro nomi erano riportati in grassetto sulla prima pagina di un disegno di legge che si proponeva lo stesso obiettivo delle norme che vorrebbero abrogare con il voto del 12 e 13 giugno: liberalizzare la gestione dei servizi di utilità pubblica e fare entrare i privati dove il pubblico non riesce, per incapacità o peggio.
Il disegno di legge è una delega al governo per il riordino dei servizi pubblici locali. Porta la firma di un presidente del Consiglio, Romano Prodi, e di cinque ministri proponenti. Lidia Lanzillotta, Pier Luigi Bersani, Giuliano Amato, Antonio Di Pietro ed Emma Bonino. Di questi lunica che sicuramente non ha cambiato idea è la prima, che ha aderito al comitato per il No. Non pervenute, per il momento, le posizioni di Amato e di Prodi, mentre per la Bonino vale la mozione dei Radicali: le liberalizzazioni servono, ma è prioritaria la partecipazione al voto per salvare i referendum. E poi, in fondo, il quesito può servire ad avviare un dibattito sul tema.
I leader di Partito democratico e Italia dei valori non hanno sentito la necessità di motivare in modo così articolato la rinuncia alle lenzuolate e a un passato quasi liberista. Anche perché sarebbe difficile per entrambi. Proverbiali le rampogne del Di Pietro versione ministro contro gli ambientalisti che gli mettevano i bastoni tra le ruote. Mentre il segretario del Pd ha costruito la sua fortuna politica proprio sulla fama di liberalizzatore.
Solo tre anni fa Bersani, ad un convegno del Pd, chiariva ai militanti la posizione del partito: i privati devono entrare nella gestione dei servizi pubblici e questo vale anche per lacqua. I movimenti che vogliono mantenerla pubblica? Posizioni terzomondiste e no global che sono giuste, ma più adatte al Brasile «dove ci sono i padroni dellacqua». Non da noi dove «ci sono gli acquedotti che perdono». Giusto che lacqua resti pubblica che le infrastrutture siano in mano a regioni, province e comuni. Ma per gestire il servizio serve «qualcuno in grado di fare quel mestiere lì». Come in Francia dove «due grandissime società si sono sempre occupate di acqua arrivando a specializzazioni eccezionali». Ricetta da copiare anche da noi? No, in Italia è meglio «una partnership industriale» pubblico e privato, dove il 60 per cento rimane in mano pubblica. Stessa ricetta della legge che, a detta del Pd versione 2011, apre le porte alla privatizzazione del bene primario per eccellenza e va combattuta con il voto. Formula che il governo Prodi voleva realizzare, anche perché è lEuropa a chiederlo. Allora il premier, ma anche Bersani e Di Pietro in veste di ministri, dovettero ingaggiare un braccio di ferro con i partiti della sinistra estrema e arrivarono a costituire un comitato per salvare le lenzuolate di Lanzillotta. Non ci riuscirono. Oggi imitano gli avversari interni di quegli anni e si accodano ai referendum nati nellarea un tempo chiamata no global. Daltro canto lobiettivo della consultazione di giugno è noto.
«Affondiamolo con il referendum», titolava ieri il Fatto quotidiano.
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