Equità! Equità! La parola d’ordine, l’invocazione ieri era unanime. In particolare l’«equità» sembra essere stata violata soprattutto dalle norme sulle pensioni perché toccano tutti. Già, ma chi lo dice cosa è equo e cosa non lo è? Questa nuova parola vuota in realtà racchiude l’arbitrio, la presunzione di sapere meglio di altri cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. L’equità non è colpire le categorie «nemiche», bensì fare in modo che non ci siano discriminazioni fra cittadini a parità di condizioni. Ebbene, se c’è una cosa che è «oggettivamente» iniqua è proprio il nostro attuale sistema pensionistico e, guarda caso, è proprio ciò su cui sono maggiormente arroccati i sindacati e la sinistra. Anzi, dato che le maggiori voci di spesa dello Stato sono proprio le pensioni e gli stipendi del pubblico impiego, si può dire che le radici del debito vanno ricercate proprio nella sproporzione con cui sono state concesse le pensioni alle passate generazioni.
La professoressa Fornero è chiaramente uno dei migliori elementi del governo Monti e nei suoi articoli, in passato, aveva già dimostrato di avere ben chiara la natura del problema, infatti la parte sulle pensioni è una delle poche cose convincenti della manovra. Non tutti infatti sanno che per la previdenza i cittadini sono divisi arbitrariamente in caste come se fossimo in India. Queste caste nulla hanno a che vedere con merito o capacità, ma semplicemente con l’anno di nascita ed eventualmente con la fortuna di essersi trovati a lavorare in settori beneficati dalla manica larga dei governi che hanno creato il debito pubblico. In cima alla piramide ci sono i bramini che percepiscono o percepiranno una pensione con il sistema retributivo, in mezzo i vayshia che avranno il sistema misto e in fondo i paria del sistema contributivo, e qui si trovano tutti i giovani, a cui questa storia viene raccontata poco.
La casta del retributivo (che comprende anche per analogia i superprivilegi dei vitalizi) riceve un assegno mensile totalmente slegato dai contributi versati, sia che si tratti di un operaio o di un dirigente. La casta del misto avrà solo una quota della pensione parametrata ai contributi, mentre tutta la parte relativa al lavoro anteriore al 1996 sarà «gonfiata» con il retributivo. I giovani, vincolati dal contributivo, avranno invece (forse) l’unica pensione «equa» in quanto direttamente proporzionale ai contributi versati, se pur depauperati da coefficienti vessatori e da un’età pensionabile clamorosamente più elevata di quella di cui hanno goduto i bramini del contributivo.
Il blocco della rivalutazione delle pensioni esistenti e il passaggio immediato al contributivo pro quota vanno esattamente nella direzione di ridurre la distanza tra le caste dei giovani e dei vecchi pensionati, proprio nel segno dell’equità invocata solo a parole. Possono cortesemente spiegare i signori del sindacato cosa c’è di equo nel fatto che a parità di contributi versati il signor Rossi (bramino) abbia una pensione di 10 mentre il signor Bianchi (paria) riceva un assegno di 3? Cosa c’è poi di giusto nel fatto che Rossi abbia cominciato a ricevere 10 a cinquant’anni (o meno!) con pochi anni di lavoro mentre Bianchi riceverà 3 a 65 anni dopo più di 42 anni di fatica? Se c’è una cosa «iniqua» sono se mai proprio i denari in più ricevuti finora da Rossi.
Non è questione di ricchi o poveri, si sta parlando di ridurre differenze che prescindono dalla fascia di reddito. Il blocco della rivalutazione è il metodo meno indolore (il più «equo» sarebbe parametrare tutte le pensioni, anche le esistenti, ai contributi versati, esattamente come capiterà ai giovani, ma sarebbe la rivoluzione).
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