Il processo breve? Vale solo per i magistrati

RomaNon breve, brevissimo. Quattro anni al massimo. È il processo disciplinare per i magistrati di fronte al Csm. Nel 2006 sono stati fissati termini categorici per le fasi del giudizio delle toghe. E se non vengono rispettati, il procedimento disciplinare si estingue.
La filosofia è la stessa del tanto vituperato, soprattutto da parte della magistratura, disegno di legge per il processo breve proposto dal centrodestra al Senato. Anche qui si distingue tra prescrizione del reato, che è di 10 anni per l’illecito disciplinare, e decadenza del procedimento che avviene dopo 3 anni, al massimo 4 se la sentenza del Csm viene annullata dalla Cassazione. Insomma, c’è processo breve e Processo Breve. Quello con le maiuscole, tutto positivo e messo al riparo da ogni critica, si tiene all’organo di autogoverno della magistratura ed è riservato appunto a giudici e pm.
Loro sì hanno diritto a non avere per anni la spada di Damocle di un giudizio sulla testa. Loro sì hanno assicurata una sentenza, «nel nome del popolo italiano», in tempi velocissimi. Per il comune cittadino, invece, il discorso è tutto diverso. Anche se quello del Csm ha tutte le caratteristiche di un processo normale: si applicano le norme del codice di procedura penale, anche per prove e testimoni e l’accusato può farsi difendere, da un avvocato o da un collega.
Nessuno che abbia ricordato, in questi giorni di polemiche, che il processo brevissimo per le toghe già c’è. Almeno per dire che il principio è giusto e magari c’è da fare dei distinguo. Tutti in silenzio su questo punto, tutti pronti a sparare, dall’Anm, dal Csm e naturalmente dal centrosinistra, sul ddl Gasparri-Quagliariello, senza salvare proprio niente. E senza accettare di discuterne.
Eppure, nel decreto legislativo 109 del 23 febbraio 2006 l’articolo 15 ricalca proprio il provvedimento in discussione in Senato. Per non parlare di quello proposto nelle legislature passate dal Pd, a firma Fassone, Finocchiaro e altri.
Per spiegare: a Palazzo de’ Marescialli c’è una sezione presieduta dal numero due del Csm, Nicola Mancino e composta da 4 togati e due laici, che ha il compito di giudicare le toghe sottoposte ad azione disciplinare dal ministro della Giustizia e dal Procuratore generale della Cassazione. L’azione disciplinare è obbligatoria e, recita il primo punto dell’articolo 15, «è promossa entro un anno dalla notizia del fatto». Punto 2: «Entro un anno dall’inizio del procedimento il Pg deve formulare le richieste conclusive». E ancora: «Entro un anno dalla richiesta, la sezione disciplinare del Csm, si pronuncia». Punto 6: «Se la sentenza della sezione disciplinare del Csm è annullata in tutto o in parte a seguito del ricorso in Cassazione, il termine per la pronuncia nel giudizio di rinvio è di un anno». Punto 7: «Se i termini non sono osservati, il procedimento disciplinare si estingue, sempre che l’incolpato vi consenta». L’obiezione è ovvia: al Csm un processo disciplinare dura in media un anno, a volte due e quindi la macchina può funzionare agevolmente. Mentre negli uffici giudiziari per i comuni cittadini i tempi sono molto più lunghi. Rimane però il fatto che il principio - dice il laico Pdl Gianfranco Anedda, membro supplente della sezione disciplinare del Csm -, sia «sacrosanto ed è un diritto di tutti non rimanere nel limbo del giudizio per un tempo eccessivo: questo esempio dimostra che se si vuole il principio può essere applicato».

«La logica - aggiunge Giulio Romano, togato di Magistratura indipendente e componente della sezione disciplinare - è sempre quella della ragionevole durata del processo. Il sistema l’ha accettata e codificata. Per i processi penali, però, una regola del genere dev’essere accompagnata da altre riforme che consentano di raggiungere l’obiettivo di un processo breve e giusto».

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