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Processo kafkiano al libro «il Processo» di Kafka

«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato». Tutto comincia da qui, da questo incipit che ti entra con tutta la sua assurdità nella testa e nelle vene. È il Processo. È Kafka. È la storia di un bancario che si ritrova a fare i conti con la giustizia senza sapere perché. Ed è una storia che non finisce mai, trasmigra da un secolo all’altro, di nipote in nipote. Eccola. Qui c’è quello che Kafka ancora non sapeva. Il seguito. Il processo non è mai finito.
Josef K. non c’è più. Le protagoniste questa volta si chiamano Ruth e Hava, due anziane sorelle sopravvissute all’Olocausto. Anche per loro la burocrazia è un mistero insondabile. Non si arrendono, ma restano lì ad aspettare pazienti e rispettose che la giustizia faccia il suo corso. Si sono trovate in mezzo ad un processo tra due Stati, che va avanti da anni. Da una parte c’è la Germania, dall’altra Israele, a contendersi il manoscritto del Processo, quello che in un pomeriggio del 1924 capitò tra le mani di Max Brod, l’amico, l’uomo a cui Kafka aveva affidato il destino delle sue carte. Il grigio impiegato di Praga, che non era mai riuscito a scrollarsi l’ombra del padre sulle spalle, sul letto di morte, moribondo, aveva espresso il suo ultimo desiderio: bruciate tutto. Lo aveva sussurrato a Max, prometti, quei manoscritti, quelle storie strampalate meritano solo il fuoco. Max Brod disse sì, ma poi non fu di parola. Non solo non bruciò nemmeno un foglio, ma quando nel 1939 riuscì a scappare da Praga per la Palestina, si portò tutti i manoscritti originali in una valigia. Quando Brod morì nel 1968 a Gerusalemme fu la segretaria, Esther Hoffe, la madre di Ruth e Hava a ereditare le scartoffie di Kafka. Nel 1988 Hoffe la segretaria decide di separarsi dal Processo. C’era bisogno di soldi, vendere almeno uno di quei manoscritti sembrava l’unica cosa saggia da fare. È l’Archivio della Letteratura Tedesca che si fa avanti per primo e lo compra ad un’asta a Londra per due milioni di dollari. Alla famiglia vanno solo le briciole. Esther morirà a 101 anni. E lascia tutto alle due figlie. Un vero e proprio tesoro. Ma tutto resta bloccato per colpa del processo. Israele rivuole quello che «La Germania ha avuto violando una legge nazionale che proibisce di togliere beni culturali del Paese». E il Processo viene appunto ritenuto tale. «Una ingiustizia storica», dice il direttore della Biblioteca Nazionale Israeliana. «Tutto è stato fatto alla luce del sole», rispondono dalla Germania.
Il direttore dell'Archivio tedesco di Marbach dove è custodito il libro dal 1988, non intende fare un solo passo indietro. «Sono passati 21 anni senza che nessuno si sia fatto avanti».
La Biblioteca tedesca ha deciso, questa è una battaglia che non perderà. Trova argomenti: ha pagato caro per riavere quel testo. E poi la volontà di Max Brod non è stata rispettata, e cioè che rimanesse alla sua segretaria. E poi, a voler vedere, la stessa volontà di Kafka è stata tradita. Lui che voleva vedere bruciare i suoi lavori dopo la morte. Intanto, come una sorta di maledizione che continua, la diatriba va avanti, persa tra polverosi scaffali, impantanata tra appelli e requisitorie, confusa, trascurata tra avvocati e magistrati. Sembra di rivederlo Josef K., confuso, che rimbalza da un ufficio legale all’altro. Intanto, fino a quando la diatriba non verrà chiarita l’intera eredità è lì, immobile, bloccata, pietrificata. Chiusa nelle stanze della burocrazia israeliana. Ora Israele teme che tra le cose lasciate dalla vecchia signora Hoffe ci siano altri scritti originali di Kafka.
Ruth e Hava sono due anni che guardano due Paesi litigare.

Tutta colpa di quel libro che la loro madre decise di vendere. Avevano bisogno di quei soldi, allora come adesso.
Oggi basterebbe una decisione. Qualunque. Vinca la Germania o Israele non importa. Il signor K. è stanco di aspettare.

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